Riga n.
Alberto Arbasino
Viola Papetti
Il sarcofago di Manganelli

“Per molti anni, forse per molte incarnazioni, avevo sempre desidera­to questi inverosimili viaggi intercontinentali, che possono arrivare esclusivamente come regali del desti­no; quali congiunzioni astrali abbia­no messo in moto questa slavina di terrestri traslazioni, non so; ma spe­ro che sia di genere che vuol anni a fabbricarsi, e non si scompone facil­mente”, scrisse Manganelli dopo il ritorno dalla Cina (Cina e altri Orien­ti, Bompiani, 1974). Il primo di que­sti viaggi, “splendido e massacran­te”, fu in Africa nella primavera del 1970. Per conto d’una società multi­nazionale che progettava di costruire una strada panoramica lungo la costa orientale, visitò Egitto, Etiopia, una puntata su Aden, il Kenia e la Tanza­nia. Viaggiava con una dozzina di esperti, alcuni ingegneri e una foto­grafa, e avrebbe dovuto essere l’aedo di quel tour africano.

Diari, lettere e fotografie certamente sono rimaste in più mani, affi­date alla discrezione degli amici. Ritornò con uno splendido volume sul­le chiese copte della città santa di La­libelà, in Eritrea, e forse aveva già in mente l’oggetto dei viaggi che sareb­bero seguiti: cercare enigmi, emble­mi, enteroideogrammi del sacro. I due viaggi in Asia andrebbero letti di seguito, trattandosi di un pellegrinaggio in due tempi. Il primo fu lie­tamente mozartiano, rigenerante, un’apertura verso un altrove della sa­certà che non comportò perdite, né terremoti psichici, ma acquisizioni di imprevedibili forme e sentimenti. La Cina, le Filippine e la Malesia si era­no docilmente dispiegati innanzi all’anima occhialuta di Manganelli, in diretta e sussultoria consultazione con le entragne sensibilissime. È difficile contare quanti luoghi di culto di ogni religione abbia visitato, quanti cimiteri. Con quanto furore e furberia abbia dato la caccia agli dei, ne abbia spiato i rapporti con i fedeli, le cerimonie e i commerci; li abbia fiutati nella pioggia e pestati nella polvere. La commozione più forte “arcaica, violenta e tenerissima”, la provò nella cappella degli Antenati, nel tempio dei Khoo Kongsi a Pe­nang. “Vi fu un tempo in cui anche noi sapevamo che la morte è un mo­mento supremamente cerimoniale; che solo come rito possiamo varcare quella soglia, da vivi e morti, senza cedere allo sgomento della nostra inanità affettiva”. Finalmente speri­mentò l’India, e scoprì l’angoscia pe­culiare dell’anima bianca quando si trova sfidata, e ferita, da una fisicità, un’estetica e una teologia completa­mente altre, saldamente compatte, e mostruosamente pervasive. Al ritor­no scrisse gli undici articoli che ap­parvero su “Il Mondo” dal 27 no­vembre 1975 al 19 febbraio 1976. Raccontavano la scoperta che proce­deva in parallelo con le tappe del viaggio. Anche questa volta era par­tito senza macchina fotografica poi­ché detestava le false associazioni che le immagini sollecitano. Preferi­va aiutarsi con la memoria e la carta geografica. Si era preparato leggendo “il pulitino Siddartha” e il Vedanta spiegato da Huxley, “un fantasma igienico”, e almeno tre guide delle più accreditate. Ma qualcosa andò male. Fece l’errore di salire in aereo stretto alla sua anima razionale, quel­la milanese, che si trascinava dietro quella irascibile, la romana, e dimen­ticò a casa quella concupiscibile, l’e­miliana, sapendo di già che non avrebbe mai assaggiato un piatto in­diano. Entrò in India dallo sfintere, Bombay, sbalordito e quasi felice del primo violento impatto “[...] so che non sono degno di questo mondo co­sì superbamente invaso dalla propria terrestrità”. Però Bombay l’aveva sfregiato, Ajanta ed Ellora lo aveva­no turbato per quella condizione oni­rica e sensuale della pietra. L’anima irascibile volle andare a Goa per una pausa di finta Europa. “Ho sentito il fascino e la lontananza di quel mira­bile e non già impervio, ma infinta­mente (non ‘infinitamente’!) attra­versabile mondo, quel luogo di teneri fantasmi, di clandestini giochi della mente e delle membra; [...] Ho voglia di provare il mio antico disagio di eu­ropeo, di italiano, di romano, vessato dalle acredini logiche delle afferma­zioni chiare e impossibili”. A Goa indugiò, inseguendo fantasmi gran­diosi di santi cattolici, san Francesco Saverio e san Tommaso, interrogan­dosi su quella osmosi del sacro tra Oriente e Occidente. Giunse a Tri­vandrum deciso ad andare per libre­rie di sinistra, saggiare la situazione politica. Si era creato una gentile di­fesa, un umorismo delicato e surreale con cui antropomorfizzava e euro­peizzava cose e animali: gli aerei, un ventilatore, le corriere, gli avvoltoi, i tassì, i cani in special modo, i bovi naturalmente. A Madras, la città sacra, ficcò l’occhio mentale a fondo nel groviglio numinoso indiano. For­se sorretto segretamente da Hillman, lo aveva capito. Quindi domato. Ma a Madras ci fu una fatale, angoscio­sissima revanche. Quel senso di mor­te che solo la samsara può incidere impietosamente nella nostra anima, lo prese a tradimento. “Non conosco più la combinazione per uscire da me stesso. Qualcuno mi ha chiuso a chiave? Qualcuno ha chiuso a chiave il tempo? Qualcuno mi sta suggerendo che tutto ciò in cui dimoro, carne e aria e hotel, non è che un progetto di sarcofago?”. Finalmente a Delhi, un antico amore degli anni cinquanta, ritrovò l’orgoglio, la solitudine e la disperazione delle religioni del Li­bro. Fu un minareto altissimo che gli restituì “la desolazione e la notturna felicità semita che è nel nostro nero e incattivito sangue”. A Roma l’aspet­tava la notizia dell’improvvisa scom­parsa del fratello Renzo.

Tempo dopo, Manganelli fece dat­tilografare e rilegare i manoscritti de­gli articoli e me ne diede una copia. In forma di libretto questo viaggio lo si legge d’un fiato per la veemenza stilistica e psicologica, per l’“infini­ta” passione del ricercatore di segni teologici. Ma un consiglio ai lettori: quando incontrate “ampio/a” sosti­tuitelo con “empio/a”, un aggettivo decisamente più manganelliano.
 
 
In “L’Indice dei libri del mese”, luglio 1992; poi in Viola Papetti, Gli straccali di Manganelli, Sedizioni, Suna 2012
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