Ludovica Koch
La palude, indecorosa preghiera
La palude, indecorosa preghiera
Non accade spesso, nel cosmo turbato, slittante, franante, che è l’oggetto e il soggetto di tutti i libri di Manganelli, nel suo inquieto, “digrignante” universo animale e geometrico scosso dalla febbre del disfacimento, dalla “lascivia della degradazione”, che alcunché arrivi a vedersi qualificato di definitivo. Né definitivo nel senso di ultimo confine dell’immaginazione e del pensiero: ché tutto, al contrario, nel mondo mentale di Manganelli è per definizione intollerante di termini, impaziente di orizzonti e infaticabilmente ulteriore a se stesso. Né, tanto meno, definitivo nel senso attivo di stabile, acquisito per sempre. La stabilità è, per questo scrittore, un vero e proprio adunaton teorico, e quel che è più, un duro disturbo estetico; gli suscita conati di una profondissima ripugnanza etica. Associata alla continuità, la stabilità è forse il supremo idolo della tribù, quello che più gli urge sbeffeggiare e calpestare. All’opposto, nell’universale “levitazione discenditiva” scoperta dal primo libro, quella Hilarotragoedia del 1965 che dà una volta per tutte all’opera di Manganelli il tono e il tema, nella suicida, “precipitosa entropia” che travolge in un gorgo spossante e senza tregua le cose e la coscienza che va contemplandole “con gli orecchi, l’inguine e i ginocchi”, turbinano su se stessi invertendosi i compiti e i luoghi, il basso e l’alto, la luce e l’ombra, la materia e l’estrema rarefazione. Impossibile, dunque, fissare l’attenzione su un lembo estremo dell’esperienza, su un ultimo margine del pensiero. Dietro l’ultimo, sotto l’inferiore, non importa quanto basso e inarticolato, si muove sempre un’“infima rivelazione”, che riattiva la febbrile entropia, che scuote e disturba ogni precipitazione provvisoria delle conoscenze. Un’“assoluta sofferenza” agita e infinitamente metamorfosa l’informe, deforme, stordita bestia mondana. Il vortice del tutto smania circolarmente verso un centro, un senso e un ordine: che altro non può essere se non il ventre enorme e cavo di Moloch. Della Palude come nome collettivo per l’esistenza e metafora della storia amava parlare August Strindberg: uno scrittore particolarmente apprezzato da Manganelli per i suoi temi, tutti ispirati alle furie dei casi e del caos, per le nere ossessioni e la teoria del mondo come effetto e prodotto della letteratura. Meglio assecondare, di quella Palude, le insidie per correnti, per ristagni e per gorghi, piuttosto che puntare i piedi a cercare un fondo che non c’è, raccomandava dunque Strindberg nel romanzo autobiografico Il convento. La vita condivisa si svolge in un luogo chiamato generalmente il Pantano, raccontava un personaggio del suo “dramma da camera” Casa bruciata, “dove tutti non fanno che odiarsi, sospettarsi, calunniarsi e tormentarsi a vicenda”.
Forse proprio pensando a Strindberg, e forse invece alla Monadologia di Leibniz, con quello stagno pescoso che si manifesta, in ogni sua goccia, come “un vivo specchio perpetuo dell’universo”; forse, infine, all’antica metafora dell’esistenza come faticoso e periglioso guado nel fango, Manganelli sceglie a tema del suo ultimo, straordinario libro non “una” palude ma – dichiara fin dalle prime pagine, assai più come una messa in guardia che come un adescamento al lettore – “la” Palude stessa. Un oggetto mentale an sich, universale e, benché infinitamente mutevole, entro sé costante e immortale, dentro a un libro bugiardamente, provocatoriamente kantiano.
Palude definitiva, poi. Il libro appena uscito di Manganelli, a un anno dalla morte, è stato da lui lasciato anepigrafo; e la curatrice gli ha adattato a titolo una formula, assai eloquente, che compare nelle primissime pagine. La formula è evidentemente un ossimoro: nella più pura tradizione, patristica e barocca, che è la genealogia elettiva di Manganelli. Che cosa, infatti, può pensarsi di meno “definitivo” – di meno confinato, unitario e fermo, di meno ultimo e ostinato – di quell’acquitrino senza orizzonte che si rivela, nel libro, già al primo colpo d’occhio come “la distesa, la folla di un brulichio sterminato, un pullulare di infinite guise di vita, una repellente e minuta grandiosità, dove tutto nasce, sibila, strazia, copula, nasce, defeca” (p. 39)? Di quel paesaggio di putredine “sommamente ripugnante e fascinoso”, dove i sensi, e più il discorrere, colgono l’accadimento ubiquitario e primordiale di “un ininterrotto monologo di acque, fango, mota, melma, un colloquio di mefiti e putredini in cui tutto si scontra, si altera e rimane se stesso” (p. 57)?
Cercando, non ho trovato nell’opera di Manganelli che altri due luoghi di definitività: intesa, in tutti e due i casi, come spazio di una tregua precaria alla minacciosa, e insieme desiderante dissipazione dall’interno dei fatti del mondo. Come un’isola di trionfale appartenenza del pensiero a se stesso: ma anche della sua delusione, assenza e disperazione. Sono due luoghi esclusivamente letterari, e per questo capaci, se non di spiegare, almeno di illustrare e dilatare l’ossimoro fondamentale che agita il nuovo libro. Della nebbiosa “terra dei Cimmerii, nostra definitiva patria” si parla, per esempio, in uno dei libri più belli di Manganelli: quel Discorso dell’ombra e dello stemma (1982) che ragiona dell’operare della letteratura come di un accadimento senza ragioni e senza autore (“Giove scrive”, come si diceva in latino Giove piove), condotto per cieche terribilità, per silenzi ed errori verso lo sgomento di un echeggiante vuoto centrale: “un luogo senza nome, una stazione di rumori sommessi e luci velate”. Quel Discorso che racconta, rifacendo le cadenze visionarie e solenni della Genesi, come le parole dalla doppia faccia di stemma e d’ombra, di perdita e di pienezza trionfale del senso, siano sempre contemporanee alla fine del mondo (“giacché questa fine è perenne”); e come sappiano, sole, coglierla, anticiparla e narrarla, trasformando l’attesa dell’apocalisse, che tende la storia, in una discontinua, scontrosa e necessaria epifania.
Allo stesso tempo, le parole della letteratura sono coetanee e partecipi della cosmogonia originaria. Scrivendo, leggendo, profetizza al passato il Discorso, per la prima volta “i significati si moltiplicarono e il mondo a sua volta divenne insondabile, un viaggio ininterrotto da luogo a luogo attraverso gli spazi del mondo, e nessuno seppe quale fosse la forma del mondo, ed anzi il mondo cambiò forma, e la vita scambiò con la morte, e lemuri uscirono da tutte le fratture, e i sassi crebbero in uomini, parlarono, gli alberi investiti dal vento conobbero i furori e le esitazioni dell’amore, e i numeri piansero a vicenda la morte l’uno dell’altro, e continuamente lo zero, travestito da sole, uccise e fece rinascere, mescolò furbamente vita e morte, e fu lacuna estrema, fu la cuna, fu il centro, l’inizio, l’iniziazione all’inizio, il forame d’accesso del luogo dell’orrore e del luogo del riso – il riso dell’ombra e il riso dello stemma. Fu, ed è lui, l’inesattezza esatta” (p. 117). La caliginosa, e a tutti ignota, terra dei Cimmerii di cui favoleggia l’Odissea, “nostra definitiva patria che mai avremmo dovuto lasciare per cercare fortuna quaggiù, sulla terra” (p. 72), è appunto immaginata – per la sua stessa polimorfa caligine, per l’indistinzione che ne cancella i confini e le forme – come patria di quello zero creatore e luogo nativo dell’errore e del terrore, della divagazione e dell’assenza, dell’invenzione, delle origini e della spietata “esattezza del caso”. In quella terra mentale governa un pensiero associativo e non deduttivo, costituzionalmente non antropomorfico, e per questo capace di tenersi al di qua e di spingersi assai oltre le nostre storie. Ma c’è un’altra terra “definitiva”, nei libri di Manganelli, ed è la “reggia” della caverna, a sua volta contenuta dentro una notte e un cielo, dove giunge alla fine del suo itinerario l’io vaneggiante di Dall’inferno (1985). Un io a sua volta fatto caverna, mangiato e scavato di emblemi da dentro, e dunque ormai, anche lui, vacuo e sonoro. Questa caverna che, ci si dice, è “la lacuna massima, nulla centrale del nulla, e insieme luogo privilegiato, qui assoluto, perenne del mio male, accogliente, amico”, trova un’oscura e suprema nobiltà quando si lascia invadere da torbidi liquami e si rivela, anch’essa, di natura organica e putrescente. È uno sterminato e forse molle ventre cavo, l’“acquitrino interiore” di un immenso e occulto animale. Una bestia certo subdola e maligna, e soprattutto “mutevole, instabile, fantastica”: che ha ossa d’aria dura, ciuffi d’occhi e di corna e petali come un fiore, e che “trasforma il cielo in oceano per sperimentarsi capodoglio vasto quanto il mondo” (p. 95).
I libri di Manganelli si illustrano e si commentano a vicenda. Pochi scrittori possono vantare la stessa ostinazione (o irritazione?) teorica, o una ricorrenza ugualmente ossessiva di immagini e di metodi. Probabilmente il tema dello stomaco abissale della Bestia – del Pesce – “orifizio che, negli stessi singulti della decadenza, assonnatamente genera”, precede e motiva la bella rilettura di Pinocchio. È Manganelli per primo a segnalare, e insieme a oltraggiare e ad irridere, in tante sue viscide tenebre la “plateale allegoria del grembo materno” (Dall’inferno); a farci credere che il luogo ultimo (“definitivo”) coincida per obbligata banalità biologica con il luogo primo. E da regressive leggi fetali è scandito, infatti, il soggiorno dentro l’accadere della mente. L’io febbricitante di Dall’inferno, a sua volta gravido di una feroce bambola-pipistrello che lo strazia e lo consuma, scoprirà addirittura, nella grotta-ventre primaria, un macabro Feto che non nascerà mai, ma cui, per qualche teologico sarcasmo, “apparterrebbero la potenza la sapienza la dottrina”.
La Palude tiene dunque, dalla fosca terra omerica dei Cimmerii e dalle “sterminate entragne” della Bestia cosmica ferocemente materna, una sua almeno doppia natura di patria (“per la crudeltà attenta e oserei dire amorosa”, Dall’inferno) e di reggia. Partecipa della natura assoluta dei grandi luoghi simbolici; è un po’ selva e un po’ mare, e poi isola, montagna, deserto. Li contiene, anzi, e li finge uno dopo l’altro tutti. Soprattutto, sbandiera una sua profonda doppiezza: alterna, a seconda del cadere della luce, la faccia metallica a quella verminosa. Il suo modo specifico è, più che l’indeterminazione, il trapasso: l’“intenso e logorante transito” cosmico, interminato e totale; la metamorfosi ciclica dell’organico nell’inorganico.
Pace e patria (“questa parola onestamente scolastica”) è la Palude in quanto luogo dell’estremo abbandono, insidioso e familiare (“come la palude sa consolare!”), languido, passivo, primordiale, infetto, morbidamente regressivo, affettuosamente letale. Un’“empia e torbida” patria, naturalmente, e una pace “intensa e cupa”. “O mia tregua acquitrinosa, mia morta gora, fracida di erbe consunte, di animali morti, tenero padule, forse un dio, forse una dea, forse una bestia acquosa, una marcida fracida quanto languida fanga, mia patria, mia tregua” (p. 16). Ma allo stesso tempo in cui si manifesta principio oggettivo di ogni anche infima esistenza, terra intima a tutti e primaria, la Palude è un luogo d’arrivo, una meta sconosciuta, “sacra” e solenne: perché contiene anche il principio soggettivo dell’interpretazione e della storia, la reggia, appunto. Questa “allucinazione elaboratamente arredata” (Agli dei ulteriori), questo simulacro e coacervo illusionistico del mondo, questa “variante lessicale del carcere” (Encomio del tiranno) che ossessiona, insieme all’accidioso monarca-eremita che l’abita, tanti degli ultimi libri di Manganelli.
Nella reggia si incastrano gli uni negli altri tutti gli edifici storici e tutti gli edifici pensabili, rocche, teatri, caserme e castelli; vi cozzano e vi si sovrappongono irregolarmente corridoi, segrete e mozzi spigoli di muri. Così che la reggia assume volta a volta lineamenti di città, specialmente le appestate e dirute, e di regioni, specialmente le devastate, e di arsi e sommersi continenti. A capriccio della megalomane furia immaginativa che l’abita, e che dal centro di lei (se centro mai esistette, e se esistette occupato, “abisso dello scudo”, da una tartaruga morta) comanda barocchi soli notturni e trentadue lune in un cielo trentadue volte più alto, la reggia-continente assume forme incongrue, impervie e sempre discontinue di macchina, “montagna, animale, pianta, idea geometrica”. Come la reggia, la palude si manifesta città e cimitero, labirinto e bordello, regione, giardino e latrina, regno acquatico e riarso dominio vulcanico. Se “le storie nascono a grappoli, o non nascono” (Encomio del tiranno), se l’universo è tutto fatto di un verminaio di storie che si contagiano e si generano fra sé, quando non vengono brutalmente potate per ragioni di coerenza narrativa (“l’importante è non raccontare”, dice Manganelli, nel Discorso dell’ombra e dello stemma, pensando alla strage di possibili narrazioni che sono costati, per esempio, i Promessi Sposi); se i libri vanno letti per largo e non per lungo, e ogni pagina è una porta aperta che conduce ad altre pagine, lungo interminabili fughe di stanze, per lunghissimi strombi e strafori e “in un infinito brusio di cardini” (Pinocchio), non farà meraviglia che anche la storia – acquitrinosa, e non antropomorfica – della Palude fermenti da un fondo di pagina in un altro libro. Dal delirio simulativo, una delle tante finzioni di un io “colpevole e amabile” (Agli dèi ulteriori) che si libera d’improvviso dal carcere dov’è costretto, strappa una spada e fugge per una putrida città. “Inforco un cavallo e corro verso le porte: mi trovo tra le paludi che accerchiano la città. Nessuno oserà seguirmi fra i draghi e le serpi alate, ma io non oserò mai uscire da questo dedalo di acque e canne, questi lenti laghi malarici e febbricosi” (p. 95). Anche l’io “definitivo” – definitivo, stavolta, storicamente: l’ultimo dei molti farneticanti, fobici io inventati da Manganelli, e forse anche di tutti il più accanitamente contemplativo; oltre che il più articolato antagonista, coniuge, amante dell’ubiquitaria massa animale e geometrica che fa di sé, solo per lui, sgangherato teatro – ha commesso in qualche luogo, per qualche ignota ragione o senza alcuna ragione, una oscurissima, empia colpa. Anche lui strappa una spada, ruba un cavallo e fugge dal rogo dei suoi giudici e giustizieri (“vi è fuga al terrore che non meni al terrore, alla cattura che non ripeta una cattura?”).
Ma l’attacco grandiloquente, araldico e ironico, si ripiega subito su se stesso. Esita, rallenta, riflette. Il narratore sa di lasciarsi alle spalle una feroce città di giusti e una complice cittadella di ingiusti per rifugiarsi in “un luogo dove è difficile entrare e impossibile uscire: dove io sarò al sicuro, ma affatto solo, e per sempre escluso da ogni commercio umano” (p. 12). La palude, prima ancora di essere cosa di putredine e di fermentazione, prima di manifestare propri oggetti, qualità e mire, è dunque per definizione un aldilà, uno spazio ulteriore e, provvisoriamente, ultimo di incognita area e configurazione. Fluttua, vibra, accenna e subito cancella guadi e sentieri, minaccia ad ogni passo di cedere, cela sicuramente nelle sue viscere migliaia di morti nel corso del suo pericoloso attraversamento, intere città di morti, mura e dighe, case e canali di morti.
Ma giorno per giorno l’esule, che della palude diventerà “il monarca e il suddito”, prende con lei confidenza; e la palude gli si mostra con facce sempre cambiate, allo stesso tempo brulichio incalcolabile di minime e liquide vite e fangoso crocicchio teorico. Una gora teologica, un’umiliata epifania della coincidenza degli opposti: escremento e cervello, divinità e verminaio.
Un dimesso groviglio di natura naturans e natura naturata, “nobile e infimo, luogo centrale e periferico, ben formato e deforme, informe, sformato, osceno, turpe, mefitico e insieme turibolare” (p. 52); geometrico e biologico, mefitico e metafisico.
La fuga delle prime pagine non era dunque che un pretesto a un’esplorazione oltre le colonne d’Ercole della geografia e della mente; non era che un pellegrinaggio a ripetere chissà quali riti, a ritrovare chissà come le orme di innumerevoli scomparsi, spossati predecessori. Come accade nei luoghi impervi e rischiosi delle fiabe e dei romanzi cortesi, selve, mari, isole, deserti, l’itinerario attraverso la Palude non è segnato, e solo su una cavalcatura dotata di straordinari poteri, un pegaso, un ippogrifo, un gerione, un grifone, è permesso passare al di là. A dorso, ironico eroe di romance, di un cavallo an sich che è la cavallinità stessa, una pelosa idea platonica, un archetipo con zoccoli e coda che non mangia e non dorme, un cittadino della Luna (“la cavallinità mi attende in una reggia astratta, con i triangoli, i numeri primi, l’idea del tempo indivisibile e trascorso, anche il concetto della morte, dell’inizio, dello spavento e della gioia”, p. 106), il fuggiasco supera le insidie della metamorfica gora e raggiunge su di lei una prospettiva privilegiata di contemplazione e di controllo. La reggia, appunto: “clandestina”.
Nel cuore (non nel centro) della palude sorge infatti una casa non costruita e non commessa (concresciuta forse, come un parassita o un vegetale), certo destinata a un abitatore solitario. La casa, lo si vede, è anche una nave, pronta ad assecondare gli umori slittanti della torbida melma. È uno studio d’artista, capace di cogliere cangianti effetti di vicino e lontano, e soprattutto di generare visioni. Un osservatorio di geografi o di cartografi, che studia l’emergere, dalla superficie ora organica e molle ora dura e lucida come una lastra d’alluminio, di sempre nuovi reticoli, occulti logogrifì di canali, pozze, sentieri. Ed è una torre di controllo che governa il subito calare e il dissiparsi violento della notte, e forse (o è fantasia del narratore?) “quei conflitti, quelle contese, quelle metamorfosi petulanti” che lo coinvolgono.
Come una palpebra calata sull’occhio, anche il cielo basso sulla palude non è altro che una sua più tenue, traslucida, molle e forse anch’essa organica proiezione rovesciata. “Se scruto il firmamento acquoso, mi trovo davanti ad una mappa di moti sottili di linee tortuose, sfregi vagabondi che non so decifrare... o al contrario potrebbe essere, questa che chiamo palude, una sorta di degradato cielo, e quel che ho immaginato come botri e acquitrini saranno da leggere come svelti e occulti ideogrammi” (p. 53). Tutti gli universi di Manganelli sono agitati da un chiuso movimento circolare, che scala il cielo al momento stesso in cui scende nell’inferno (“Se il mondo è anamorfìco, come può la discesa non coincidere con un’ascesa?”). Ma di questa fangosa pelle di cielo la palude ha bisogno per essere letta, se non interpretata. Venti che non si sa da dove vengano vi disegnano infatti “segni araldici, alfabeti, ideogrammi, disegni complicatamente enigmatici quanto effimeri” (p. 27). Altri e opposti ideogrammi (“cremisi orifiamma, pennoni, stemmi”) vi si riverberano la notte della suprema epifania degli opposti, in cui l’acquitrino “scende agli inferi”, e lascia affiorare un mondo sulfureo di vulcani a sé complementari e nemici.
Il narratore si trova dunque preso nella membrana di un organo chiuso, lacrimale, alabastrino e venoso: un occhio, un amnio, una vescica, un uovo. “Mi piacerebbe sapermi accolto all’interno di un grande uovo” (p. 37). Se l’esistenza non è antropomorfa, è sicuramente e ciecamente animale; e il pellegrinaggio, o meglio l’ascesi, di questo come di tanti altri libri di Manganelli consiste in un esercizio di abbandono della norma e della forma – dell’umanistico, prima che dell’umano; in uno sforzo di paradossale e visionaria passività della lingua e della mente, di dissoluzione centrifuga della coscienza (“un gioco che è anche largamente verbale”), di putrefazione del pensiero, per arrivare a scoprirsi morti da sempre, “coeterni alla palude” e, come le parole nel Discorso, contemporanei alla fine del mondo.
L’esercizio mentale e linguistico che forma la vicenda del libro subisce una svolta finale: la ricomparsa della cavallinità, l’“astrazione con zoccoli e coda”, e il viaggio in sogno con lei dell’eremita-monarca-schiavo della palude verso una sorta di apocalissi, che è forse la “suprema, perfetta luminaria” della dannazione. Ma non credo che il peso immaginativo della Palude insista troppo su quest’abissale epifania: raccontata come in un tono doppio, beffardo e sospeso, assai simile a quello di un altro finale, in Dall’inferno (“Di che brulica il trono, che sono quelle minute forme verminose che si affaccendano sopra il trono vuoto? Forse larve di angeli prossime a dischiudersi? E che mai si raccoglie, lento e poderoso, al disopra dello schienale? ... un teschio, un volto impareggiabile?”, p. 129). L’epifania sembra, invece, indotta e obbligata dal pellegrinaggio, dall’“errore” stesso, che una meta deve pur averla. Dove insiste, dunque, quel peso, che cosa muove l’errore? Che cosa, se non le visioni stesse che come fuochi fatui sfiatano ininterrottamente dalla putrida laguna?
Teorico e, per usare un aggettivo di Manganelli, distratto, è anche il darwinismo rovesciato con cui il narratore rintraccia, nelle carte che la casa contiene, una sorta di elementare eredità della specie; che ricapitola la filogenesi in un’ontogenesi regressiva fino all’indifferenziazione. “L’essere viene invitato a riscoprirsi cosa: a retrocedere, sebbene propriamente di un procedere non si sia mai trattato, e trovar quiete in una condizione afona” (Rumori o voci, p. 65). Non antropomorfiche, si è detto, sono le storie che Manganelli lascia di preferenza narrare alla lingua. Neppure i cento minimi “romanzi fiume” di Centuria sono propriamente antropomorfici. Parlano, infatti, variamente di città e di sfere, di terribili appuntamenti fra il cavaliere e il drago, di “dolore, vanificazione, morte” e di Voragini Custodi. E d’altro parla anche il suo ultimo libro: di più basso e di più alto dell’umano, di più serio dell’umano, d’astratto e di molto biologico. E tuttavia, ha ragione Alfredo Giuliani, le narrazioni non in forma umana di Manganelli sono al tempo stesso vistosamente autobiografiche (chi ha detto che la biografia – la “biotanatografia”, come preferisce scrivere Manganelli – abbia figura umana, e non, invece, di pozzanghera, di conchiglia o di stella?). Così, la storia della Palude racconta soprattutto, come l’Odissea, un segretissimo nostos: il ritorno a un luogo “assurdamente consueto, a una casa accogliente e mite”. “Da tempo, ormai definitivamente, sono penetrato nello spazio della palude...” (p. 16).
Apparentemente in prosa (ma chi non conosce l’uso arrischiato, carico, lirico della lingua che è uno dei due registri di Manganelli, subito dall’altro – da un oltraggioso, sfolgorante bathos – corretto e contrastato: “sono stanco di metafore e ho in orrore la poesia”?), La palude definitiva è in realtà un Poema – medievale, secentesco, romantico – sulla Putrefazione. È un’epica sulla nigredo alchimistica, lo stadio ermafroditico della dissoluzione – del sonno – della materia preliminare al magnum opus (un re e una regina che si decompongono abbracciati! Come non pensare all’ossessivo monarca bisessuale che frequenta gli ultimi libri di Manganelli?).
È, soprattutto, un trattato di mistica, sulle regole ascetiche lungamente sperimentate (“l’errore, il silenzio, lo sgomento del centro”) che governano lo sfarsi della coscienza e della percezione soggettiva, e permettono di attingere le vertigini del “gemito universale”: di cogliere la discontinua, “litigiosa” indeterminatezza cosmica.
La visione, la vertigine, sono, come sempre in Manganelli, lavoro della lingua: pazientemente addestrata – come un mistico a maneggiare, per esempio, una sua sapiente e segreta tecnica di controllo allucinatorio del respiro – a un doppio movimento (un respiro, appunto) di contrazione e di espansione, di “perdita significante e di gloria tormentosa”. La lingua si sottopone, dunque, prima ancora della mente, a un’ascesi che spoglia tormentosamente le parole del significato e delle “idee”; e quindi a una coltura intensiva (e forzata) del loro potere evocativo.
Come la letteratura deve narrare di accadimenti che si tengono al di qua o si spingono molto al di là dell’umano, la lingua sarà tenuta a lavorare di qua o di là dei propri significati: mai dentro la referenza, il suo oggetto mentale condiviso. Si educherà (sono regole, queste, della poesia di tutti i tempi) a una potentissima dilatazione delle sue associazioni primarie, foniche e fisiche; e allo stesso tempo alla percezione, dietro le parole, delle loro figure ultime e astratte. Se, come danno ragione di sospettare le prime esplorazioni, un freddo inferno di nulla dilaga dietro e fra le forme sensibili (“tu non vedi trams, balene, olmi, galli di monte, ma sempre, dovunque, il metamorfizzato diomorto”, Hilarotragoedia, p. 34) e se “solo il niente non patisce limite all’essere polimorfo o pantamorfo”, una lingua capace di discorrere di quel metamorfico niente dovrà imitarne gli espedienti e farsi a sua volta illimitatamente cangiante, vuota e carica d’echi. Un’accorta dieta mentale farà dunque, a forza di esercizi di spogliazione, del diaframma “una arnia di carenze, cavità, orifizi, luoghi d’acqua e d’aria”. E dentro quel cavo d’acqua e d’aria (una Palude interiore?) nasceranno nuove parole “da rimbalzi di fonemi, echi di caverne ventose, epifanie di miti, eventi, telefonate, un geyser” (Discorso dell’ombra e dello stemma, p. 70).
La parola, dice altrove Manganelli, ha buia natura d’inferno; come l’inferno “penetra in ogni orifizio, accompagna il mondo in ogni profilo, si accòccola tra suoni, odori, membra, animali, angeli, superni e infimi”. “Pronunciata, vola nel mondo superno e nell’infimo, incatturabile volatile”.
A partire dal Discorso, che finge un divagante procedere parlato, per precipizi e senza riprese, la lingua degli ultimi libri di Manganelli si stacca ostentatamente dai preziosi grafismi che, nel suo delirio di agorafobia, aveva fin lì disegnato la pagina – dalle sintassi intricate dei primi libri, i chiasmi, le simmetrie, “le firme, i sigilli, i paraffi” destinati a fare, dell’assente mondo, un “canovaccio, manoscritto, brogliaccio, su cui ingannare il tempo, in attesa dell’altro, di emendata, definitiva lettura” (Nuovo commento, p. 141) – per assecondare invece gli estri, gli echi, gli umori, gli errori sonori della viva voce.
Un libro intero, Rumori o voci (1987), è dedicato a studiare la vocazione apocalittica della letteratura appunto in termini d’echi e d’errori. L’ultima, bellissima pagina insegue, per allitterazioni, il volo irregolare e ansioso della voce: l’ultima occasione del dialogo col mondo (“digrignare di un universo vocale dentro un universo taciturno”), la possibilità stessa della storia. La voce che si spegne ha i poteri della tromba del Giudizio. Segna, dice Manganelli, la morte del suono, la lacerazione della notte, la fine delle cose, forse un’alba diversa, e sicuramente la resurrezione dei morti: “La voce, furibondo uccello, scende disegno di sillabe per l’aria, in forma di becco infinito, assalta quella che ora è viltà vana, reticenza astuta, e ferisce a fondo le viscere d’aria dell’ostinato diniego. Infine sperimenti il silenzio; il cielo è colmo di suoni morti, piume sonore di volatili, uccisi rintocchi” (p. 145).
A questa lingua uccello, sonante e lirica, sono affidati non solo lo studio di che cosa la Palude sia, e voglia, e faccia; ma anche la formulazione di un contratto accettabile con la Palude stessa, di un patto che è la ragione principale della letteratura per l’esistenza. “Una callida e peritosa trattativa, un sommesso baratto con alcunché di furbo, maligno e stolido, forse una bestia capace di parola, paziente e avvocatesca” (Dall’inferno, p. 26). Per aver rinunciato ai significati, la lingua possiede tanto più affinati sensi corporali, e sa cogliere, radenti sull’acquitrino, le luci mosse e cangianti (“la chiaria dell’alba, il chiarore dell’aurora, la luminosità meridiana, il radioso meriggio, il primo, questo dilucolo della sera”, p. 66); percepisce i versi sottili e mischiati di una brulicante vita acquatica (“sebbene non vi siano suoni concertati, per tutta la palude corre un sommesso crepitio, un viscido scorrere di membrane, un fruscio di rettili, un sommesso cicalio di bozzoli che si schiudono, il tremolio di ali invisibili”, p. 38); discerne “aromi fondi, che hanno qualcosa del gusto ombrato e algaceo delle ostriche”, e gli odori del sangue e della paura, e il lezzo degli escrementi, e il tanfo universale di cadavere “che ha preso il posto dell’arcaica melodia delle sfere”.
Ma come potrà lavorare per trattare la riconciliazione con l’ingegnosa e sfuggente Palude una lingua abituata soprattutto allo iato, alla scissione, alla dicotomia, al resecamento: a dividere e a distinguere, dotata com’è di “ciuffi di occhi”, e innumerevoli papille e polpastrelli e vibrisse e mucose, così da non aver fatto esperienza che di “universi discontinui, patetici e lontani talora, talora imminenti e litigiosi”? Come, se non scoprendo nella Palude la stessa cava e discontinua natura della coscienza che la osserva: e dunque, dietro ai riflessi di pallidi giunchi e torbide pozze d’acqua, un buco fondamentale, un varco, un vuoto, un non essere, una caduta fuori di sé, “una lacuna insondabile e tetra, ma soprattutto distratta”, i resti di un Ade digerente, di un divino sfintere?
Le parole non leniscono il dolore di quella caduta: aggravano, invece, la privazione, l’impotenza, il vuoto, l’assenza. “La letteratura – scrive altrove Manganelli con un bellissimo anacoluto – dà disperazione ai disperati, urli agli assordati, abbaglieranno gli abbagliati e ai famelici, fame” (Discorso dell’ombra e dello stemma, p. 27).
Il destino personale stesso è, del resto, “una frase sgrammaticata, un anacoluto”: interrotto e divagante. Il labirinto, si dice nella Palude, è modello della strada, “stradità” platonica e kantiana; riforme è modello della forma e condizione dei “perfetti disegni” che emergono di sorpresa dalla putredine. La scoperta dì una buia fraternità con la Cosa, o la Macchina, o la Bestia fuori di noi sposta radicalmente la trattativa fra soggetto e oggetto che è compito della letteratura: e che non riguarderà dunque più, come proponevano i primi libri di Manganelli, l’apertura di un pedaggio, di un ponte o di un guado dentro e oltre lei: ma un contratto di non resistenza e di reciproca, se non paritaria attenzione, che fa della coscienza lo spettatore, il destinatario, la chiosa dei macchinamenti della Bestia, dell’orecchio la garanzia del gemito universale e dell’eremita fattosi ormai verme e biscia d’acqua “la didascalia” dei sommovimenti della Palude, il commento e la cronaca della sua dialettica, “il suo lamento, la sua lacrima, la sua disperazione”. “In verità, se non c’eravamo noi rettili, la palude non sarebbe mai diventata terra sacra; noi rettili siamo importanti, soprattutto abbiamo una funzione” (p. 59).
Un attento e assai serio gioco teatrale regola dunque “il connubio insidioso, affettuoso, geloso”, gli scambi fra la non esistenza della mente e la non esistenza della Bestia: che guardandosi inaspriscono, l’una dell’altra, il vizio, la febbre e “l’indecorosa preghiera”; che fingono, l’una per l’altra, i sintomi dell’esistere: “la strettura del corpo, la paura dell’anima”. Ma proprio per quella febbre indotta, per quella finta strettura, per quella paura omeopatica una qualche continuità, “anche se svagata e interrotta”, o la mente o la Bestia debbono pur averla.
In “La Rivista dei libri”, novembre 1991; poi in Ludovica Koch, Al di qua o al di là dell’umano, a cura di Gian Carlo Roscioni, Donzelli, Roma 1997
Forse proprio pensando a Strindberg, e forse invece alla Monadologia di Leibniz, con quello stagno pescoso che si manifesta, in ogni sua goccia, come “un vivo specchio perpetuo dell’universo”; forse, infine, all’antica metafora dell’esistenza come faticoso e periglioso guado nel fango, Manganelli sceglie a tema del suo ultimo, straordinario libro non “una” palude ma – dichiara fin dalle prime pagine, assai più come una messa in guardia che come un adescamento al lettore – “la” Palude stessa. Un oggetto mentale an sich, universale e, benché infinitamente mutevole, entro sé costante e immortale, dentro a un libro bugiardamente, provocatoriamente kantiano.
Palude definitiva, poi. Il libro appena uscito di Manganelli, a un anno dalla morte, è stato da lui lasciato anepigrafo; e la curatrice gli ha adattato a titolo una formula, assai eloquente, che compare nelle primissime pagine. La formula è evidentemente un ossimoro: nella più pura tradizione, patristica e barocca, che è la genealogia elettiva di Manganelli. Che cosa, infatti, può pensarsi di meno “definitivo” – di meno confinato, unitario e fermo, di meno ultimo e ostinato – di quell’acquitrino senza orizzonte che si rivela, nel libro, già al primo colpo d’occhio come “la distesa, la folla di un brulichio sterminato, un pullulare di infinite guise di vita, una repellente e minuta grandiosità, dove tutto nasce, sibila, strazia, copula, nasce, defeca” (p. 39)? Di quel paesaggio di putredine “sommamente ripugnante e fascinoso”, dove i sensi, e più il discorrere, colgono l’accadimento ubiquitario e primordiale di “un ininterrotto monologo di acque, fango, mota, melma, un colloquio di mefiti e putredini in cui tutto si scontra, si altera e rimane se stesso” (p. 57)?
Cercando, non ho trovato nell’opera di Manganelli che altri due luoghi di definitività: intesa, in tutti e due i casi, come spazio di una tregua precaria alla minacciosa, e insieme desiderante dissipazione dall’interno dei fatti del mondo. Come un’isola di trionfale appartenenza del pensiero a se stesso: ma anche della sua delusione, assenza e disperazione. Sono due luoghi esclusivamente letterari, e per questo capaci, se non di spiegare, almeno di illustrare e dilatare l’ossimoro fondamentale che agita il nuovo libro. Della nebbiosa “terra dei Cimmerii, nostra definitiva patria” si parla, per esempio, in uno dei libri più belli di Manganelli: quel Discorso dell’ombra e dello stemma (1982) che ragiona dell’operare della letteratura come di un accadimento senza ragioni e senza autore (“Giove scrive”, come si diceva in latino Giove piove), condotto per cieche terribilità, per silenzi ed errori verso lo sgomento di un echeggiante vuoto centrale: “un luogo senza nome, una stazione di rumori sommessi e luci velate”. Quel Discorso che racconta, rifacendo le cadenze visionarie e solenni della Genesi, come le parole dalla doppia faccia di stemma e d’ombra, di perdita e di pienezza trionfale del senso, siano sempre contemporanee alla fine del mondo (“giacché questa fine è perenne”); e come sappiano, sole, coglierla, anticiparla e narrarla, trasformando l’attesa dell’apocalisse, che tende la storia, in una discontinua, scontrosa e necessaria epifania.
Allo stesso tempo, le parole della letteratura sono coetanee e partecipi della cosmogonia originaria. Scrivendo, leggendo, profetizza al passato il Discorso, per la prima volta “i significati si moltiplicarono e il mondo a sua volta divenne insondabile, un viaggio ininterrotto da luogo a luogo attraverso gli spazi del mondo, e nessuno seppe quale fosse la forma del mondo, ed anzi il mondo cambiò forma, e la vita scambiò con la morte, e lemuri uscirono da tutte le fratture, e i sassi crebbero in uomini, parlarono, gli alberi investiti dal vento conobbero i furori e le esitazioni dell’amore, e i numeri piansero a vicenda la morte l’uno dell’altro, e continuamente lo zero, travestito da sole, uccise e fece rinascere, mescolò furbamente vita e morte, e fu lacuna estrema, fu la cuna, fu il centro, l’inizio, l’iniziazione all’inizio, il forame d’accesso del luogo dell’orrore e del luogo del riso – il riso dell’ombra e il riso dello stemma. Fu, ed è lui, l’inesattezza esatta” (p. 117). La caliginosa, e a tutti ignota, terra dei Cimmerii di cui favoleggia l’Odissea, “nostra definitiva patria che mai avremmo dovuto lasciare per cercare fortuna quaggiù, sulla terra” (p. 72), è appunto immaginata – per la sua stessa polimorfa caligine, per l’indistinzione che ne cancella i confini e le forme – come patria di quello zero creatore e luogo nativo dell’errore e del terrore, della divagazione e dell’assenza, dell’invenzione, delle origini e della spietata “esattezza del caso”. In quella terra mentale governa un pensiero associativo e non deduttivo, costituzionalmente non antropomorfico, e per questo capace di tenersi al di qua e di spingersi assai oltre le nostre storie. Ma c’è un’altra terra “definitiva”, nei libri di Manganelli, ed è la “reggia” della caverna, a sua volta contenuta dentro una notte e un cielo, dove giunge alla fine del suo itinerario l’io vaneggiante di Dall’inferno (1985). Un io a sua volta fatto caverna, mangiato e scavato di emblemi da dentro, e dunque ormai, anche lui, vacuo e sonoro. Questa caverna che, ci si dice, è “la lacuna massima, nulla centrale del nulla, e insieme luogo privilegiato, qui assoluto, perenne del mio male, accogliente, amico”, trova un’oscura e suprema nobiltà quando si lascia invadere da torbidi liquami e si rivela, anch’essa, di natura organica e putrescente. È uno sterminato e forse molle ventre cavo, l’“acquitrino interiore” di un immenso e occulto animale. Una bestia certo subdola e maligna, e soprattutto “mutevole, instabile, fantastica”: che ha ossa d’aria dura, ciuffi d’occhi e di corna e petali come un fiore, e che “trasforma il cielo in oceano per sperimentarsi capodoglio vasto quanto il mondo” (p. 95).
I libri di Manganelli si illustrano e si commentano a vicenda. Pochi scrittori possono vantare la stessa ostinazione (o irritazione?) teorica, o una ricorrenza ugualmente ossessiva di immagini e di metodi. Probabilmente il tema dello stomaco abissale della Bestia – del Pesce – “orifizio che, negli stessi singulti della decadenza, assonnatamente genera”, precede e motiva la bella rilettura di Pinocchio. È Manganelli per primo a segnalare, e insieme a oltraggiare e ad irridere, in tante sue viscide tenebre la “plateale allegoria del grembo materno” (Dall’inferno); a farci credere che il luogo ultimo (“definitivo”) coincida per obbligata banalità biologica con il luogo primo. E da regressive leggi fetali è scandito, infatti, il soggiorno dentro l’accadere della mente. L’io febbricitante di Dall’inferno, a sua volta gravido di una feroce bambola-pipistrello che lo strazia e lo consuma, scoprirà addirittura, nella grotta-ventre primaria, un macabro Feto che non nascerà mai, ma cui, per qualche teologico sarcasmo, “apparterrebbero la potenza la sapienza la dottrina”.
La Palude tiene dunque, dalla fosca terra omerica dei Cimmerii e dalle “sterminate entragne” della Bestia cosmica ferocemente materna, una sua almeno doppia natura di patria (“per la crudeltà attenta e oserei dire amorosa”, Dall’inferno) e di reggia. Partecipa della natura assoluta dei grandi luoghi simbolici; è un po’ selva e un po’ mare, e poi isola, montagna, deserto. Li contiene, anzi, e li finge uno dopo l’altro tutti. Soprattutto, sbandiera una sua profonda doppiezza: alterna, a seconda del cadere della luce, la faccia metallica a quella verminosa. Il suo modo specifico è, più che l’indeterminazione, il trapasso: l’“intenso e logorante transito” cosmico, interminato e totale; la metamorfosi ciclica dell’organico nell’inorganico.
Pace e patria (“questa parola onestamente scolastica”) è la Palude in quanto luogo dell’estremo abbandono, insidioso e familiare (“come la palude sa consolare!”), languido, passivo, primordiale, infetto, morbidamente regressivo, affettuosamente letale. Un’“empia e torbida” patria, naturalmente, e una pace “intensa e cupa”. “O mia tregua acquitrinosa, mia morta gora, fracida di erbe consunte, di animali morti, tenero padule, forse un dio, forse una dea, forse una bestia acquosa, una marcida fracida quanto languida fanga, mia patria, mia tregua” (p. 16). Ma allo stesso tempo in cui si manifesta principio oggettivo di ogni anche infima esistenza, terra intima a tutti e primaria, la Palude è un luogo d’arrivo, una meta sconosciuta, “sacra” e solenne: perché contiene anche il principio soggettivo dell’interpretazione e della storia, la reggia, appunto. Questa “allucinazione elaboratamente arredata” (Agli dei ulteriori), questo simulacro e coacervo illusionistico del mondo, questa “variante lessicale del carcere” (Encomio del tiranno) che ossessiona, insieme all’accidioso monarca-eremita che l’abita, tanti degli ultimi libri di Manganelli.
Nella reggia si incastrano gli uni negli altri tutti gli edifici storici e tutti gli edifici pensabili, rocche, teatri, caserme e castelli; vi cozzano e vi si sovrappongono irregolarmente corridoi, segrete e mozzi spigoli di muri. Così che la reggia assume volta a volta lineamenti di città, specialmente le appestate e dirute, e di regioni, specialmente le devastate, e di arsi e sommersi continenti. A capriccio della megalomane furia immaginativa che l’abita, e che dal centro di lei (se centro mai esistette, e se esistette occupato, “abisso dello scudo”, da una tartaruga morta) comanda barocchi soli notturni e trentadue lune in un cielo trentadue volte più alto, la reggia-continente assume forme incongrue, impervie e sempre discontinue di macchina, “montagna, animale, pianta, idea geometrica”. Come la reggia, la palude si manifesta città e cimitero, labirinto e bordello, regione, giardino e latrina, regno acquatico e riarso dominio vulcanico. Se “le storie nascono a grappoli, o non nascono” (Encomio del tiranno), se l’universo è tutto fatto di un verminaio di storie che si contagiano e si generano fra sé, quando non vengono brutalmente potate per ragioni di coerenza narrativa (“l’importante è non raccontare”, dice Manganelli, nel Discorso dell’ombra e dello stemma, pensando alla strage di possibili narrazioni che sono costati, per esempio, i Promessi Sposi); se i libri vanno letti per largo e non per lungo, e ogni pagina è una porta aperta che conduce ad altre pagine, lungo interminabili fughe di stanze, per lunghissimi strombi e strafori e “in un infinito brusio di cardini” (Pinocchio), non farà meraviglia che anche la storia – acquitrinosa, e non antropomorfica – della Palude fermenti da un fondo di pagina in un altro libro. Dal delirio simulativo, una delle tante finzioni di un io “colpevole e amabile” (Agli dèi ulteriori) che si libera d’improvviso dal carcere dov’è costretto, strappa una spada e fugge per una putrida città. “Inforco un cavallo e corro verso le porte: mi trovo tra le paludi che accerchiano la città. Nessuno oserà seguirmi fra i draghi e le serpi alate, ma io non oserò mai uscire da questo dedalo di acque e canne, questi lenti laghi malarici e febbricosi” (p. 95). Anche l’io “definitivo” – definitivo, stavolta, storicamente: l’ultimo dei molti farneticanti, fobici io inventati da Manganelli, e forse anche di tutti il più accanitamente contemplativo; oltre che il più articolato antagonista, coniuge, amante dell’ubiquitaria massa animale e geometrica che fa di sé, solo per lui, sgangherato teatro – ha commesso in qualche luogo, per qualche ignota ragione o senza alcuna ragione, una oscurissima, empia colpa. Anche lui strappa una spada, ruba un cavallo e fugge dal rogo dei suoi giudici e giustizieri (“vi è fuga al terrore che non meni al terrore, alla cattura che non ripeta una cattura?”).
Ma l’attacco grandiloquente, araldico e ironico, si ripiega subito su se stesso. Esita, rallenta, riflette. Il narratore sa di lasciarsi alle spalle una feroce città di giusti e una complice cittadella di ingiusti per rifugiarsi in “un luogo dove è difficile entrare e impossibile uscire: dove io sarò al sicuro, ma affatto solo, e per sempre escluso da ogni commercio umano” (p. 12). La palude, prima ancora di essere cosa di putredine e di fermentazione, prima di manifestare propri oggetti, qualità e mire, è dunque per definizione un aldilà, uno spazio ulteriore e, provvisoriamente, ultimo di incognita area e configurazione. Fluttua, vibra, accenna e subito cancella guadi e sentieri, minaccia ad ogni passo di cedere, cela sicuramente nelle sue viscere migliaia di morti nel corso del suo pericoloso attraversamento, intere città di morti, mura e dighe, case e canali di morti.
Ma giorno per giorno l’esule, che della palude diventerà “il monarca e il suddito”, prende con lei confidenza; e la palude gli si mostra con facce sempre cambiate, allo stesso tempo brulichio incalcolabile di minime e liquide vite e fangoso crocicchio teorico. Una gora teologica, un’umiliata epifania della coincidenza degli opposti: escremento e cervello, divinità e verminaio.
Un dimesso groviglio di natura naturans e natura naturata, “nobile e infimo, luogo centrale e periferico, ben formato e deforme, informe, sformato, osceno, turpe, mefitico e insieme turibolare” (p. 52); geometrico e biologico, mefitico e metafisico.
La fuga delle prime pagine non era dunque che un pretesto a un’esplorazione oltre le colonne d’Ercole della geografia e della mente; non era che un pellegrinaggio a ripetere chissà quali riti, a ritrovare chissà come le orme di innumerevoli scomparsi, spossati predecessori. Come accade nei luoghi impervi e rischiosi delle fiabe e dei romanzi cortesi, selve, mari, isole, deserti, l’itinerario attraverso la Palude non è segnato, e solo su una cavalcatura dotata di straordinari poteri, un pegaso, un ippogrifo, un gerione, un grifone, è permesso passare al di là. A dorso, ironico eroe di romance, di un cavallo an sich che è la cavallinità stessa, una pelosa idea platonica, un archetipo con zoccoli e coda che non mangia e non dorme, un cittadino della Luna (“la cavallinità mi attende in una reggia astratta, con i triangoli, i numeri primi, l’idea del tempo indivisibile e trascorso, anche il concetto della morte, dell’inizio, dello spavento e della gioia”, p. 106), il fuggiasco supera le insidie della metamorfica gora e raggiunge su di lei una prospettiva privilegiata di contemplazione e di controllo. La reggia, appunto: “clandestina”.
Nel cuore (non nel centro) della palude sorge infatti una casa non costruita e non commessa (concresciuta forse, come un parassita o un vegetale), certo destinata a un abitatore solitario. La casa, lo si vede, è anche una nave, pronta ad assecondare gli umori slittanti della torbida melma. È uno studio d’artista, capace di cogliere cangianti effetti di vicino e lontano, e soprattutto di generare visioni. Un osservatorio di geografi o di cartografi, che studia l’emergere, dalla superficie ora organica e molle ora dura e lucida come una lastra d’alluminio, di sempre nuovi reticoli, occulti logogrifì di canali, pozze, sentieri. Ed è una torre di controllo che governa il subito calare e il dissiparsi violento della notte, e forse (o è fantasia del narratore?) “quei conflitti, quelle contese, quelle metamorfosi petulanti” che lo coinvolgono.
Come una palpebra calata sull’occhio, anche il cielo basso sulla palude non è altro che una sua più tenue, traslucida, molle e forse anch’essa organica proiezione rovesciata. “Se scruto il firmamento acquoso, mi trovo davanti ad una mappa di moti sottili di linee tortuose, sfregi vagabondi che non so decifrare... o al contrario potrebbe essere, questa che chiamo palude, una sorta di degradato cielo, e quel che ho immaginato come botri e acquitrini saranno da leggere come svelti e occulti ideogrammi” (p. 53). Tutti gli universi di Manganelli sono agitati da un chiuso movimento circolare, che scala il cielo al momento stesso in cui scende nell’inferno (“Se il mondo è anamorfìco, come può la discesa non coincidere con un’ascesa?”). Ma di questa fangosa pelle di cielo la palude ha bisogno per essere letta, se non interpretata. Venti che non si sa da dove vengano vi disegnano infatti “segni araldici, alfabeti, ideogrammi, disegni complicatamente enigmatici quanto effimeri” (p. 27). Altri e opposti ideogrammi (“cremisi orifiamma, pennoni, stemmi”) vi si riverberano la notte della suprema epifania degli opposti, in cui l’acquitrino “scende agli inferi”, e lascia affiorare un mondo sulfureo di vulcani a sé complementari e nemici.
Il narratore si trova dunque preso nella membrana di un organo chiuso, lacrimale, alabastrino e venoso: un occhio, un amnio, una vescica, un uovo. “Mi piacerebbe sapermi accolto all’interno di un grande uovo” (p. 37). Se l’esistenza non è antropomorfa, è sicuramente e ciecamente animale; e il pellegrinaggio, o meglio l’ascesi, di questo come di tanti altri libri di Manganelli consiste in un esercizio di abbandono della norma e della forma – dell’umanistico, prima che dell’umano; in uno sforzo di paradossale e visionaria passività della lingua e della mente, di dissoluzione centrifuga della coscienza (“un gioco che è anche largamente verbale”), di putrefazione del pensiero, per arrivare a scoprirsi morti da sempre, “coeterni alla palude” e, come le parole nel Discorso, contemporanei alla fine del mondo.
L’esercizio mentale e linguistico che forma la vicenda del libro subisce una svolta finale: la ricomparsa della cavallinità, l’“astrazione con zoccoli e coda”, e il viaggio in sogno con lei dell’eremita-monarca-schiavo della palude verso una sorta di apocalissi, che è forse la “suprema, perfetta luminaria” della dannazione. Ma non credo che il peso immaginativo della Palude insista troppo su quest’abissale epifania: raccontata come in un tono doppio, beffardo e sospeso, assai simile a quello di un altro finale, in Dall’inferno (“Di che brulica il trono, che sono quelle minute forme verminose che si affaccendano sopra il trono vuoto? Forse larve di angeli prossime a dischiudersi? E che mai si raccoglie, lento e poderoso, al disopra dello schienale? ... un teschio, un volto impareggiabile?”, p. 129). L’epifania sembra, invece, indotta e obbligata dal pellegrinaggio, dall’“errore” stesso, che una meta deve pur averla. Dove insiste, dunque, quel peso, che cosa muove l’errore? Che cosa, se non le visioni stesse che come fuochi fatui sfiatano ininterrottamente dalla putrida laguna?
Teorico e, per usare un aggettivo di Manganelli, distratto, è anche il darwinismo rovesciato con cui il narratore rintraccia, nelle carte che la casa contiene, una sorta di elementare eredità della specie; che ricapitola la filogenesi in un’ontogenesi regressiva fino all’indifferenziazione. “L’essere viene invitato a riscoprirsi cosa: a retrocedere, sebbene propriamente di un procedere non si sia mai trattato, e trovar quiete in una condizione afona” (Rumori o voci, p. 65). Non antropomorfiche, si è detto, sono le storie che Manganelli lascia di preferenza narrare alla lingua. Neppure i cento minimi “romanzi fiume” di Centuria sono propriamente antropomorfici. Parlano, infatti, variamente di città e di sfere, di terribili appuntamenti fra il cavaliere e il drago, di “dolore, vanificazione, morte” e di Voragini Custodi. E d’altro parla anche il suo ultimo libro: di più basso e di più alto dell’umano, di più serio dell’umano, d’astratto e di molto biologico. E tuttavia, ha ragione Alfredo Giuliani, le narrazioni non in forma umana di Manganelli sono al tempo stesso vistosamente autobiografiche (chi ha detto che la biografia – la “biotanatografia”, come preferisce scrivere Manganelli – abbia figura umana, e non, invece, di pozzanghera, di conchiglia o di stella?). Così, la storia della Palude racconta soprattutto, come l’Odissea, un segretissimo nostos: il ritorno a un luogo “assurdamente consueto, a una casa accogliente e mite”. “Da tempo, ormai definitivamente, sono penetrato nello spazio della palude...” (p. 16).
Apparentemente in prosa (ma chi non conosce l’uso arrischiato, carico, lirico della lingua che è uno dei due registri di Manganelli, subito dall’altro – da un oltraggioso, sfolgorante bathos – corretto e contrastato: “sono stanco di metafore e ho in orrore la poesia”?), La palude definitiva è in realtà un Poema – medievale, secentesco, romantico – sulla Putrefazione. È un’epica sulla nigredo alchimistica, lo stadio ermafroditico della dissoluzione – del sonno – della materia preliminare al magnum opus (un re e una regina che si decompongono abbracciati! Come non pensare all’ossessivo monarca bisessuale che frequenta gli ultimi libri di Manganelli?).
È, soprattutto, un trattato di mistica, sulle regole ascetiche lungamente sperimentate (“l’errore, il silenzio, lo sgomento del centro”) che governano lo sfarsi della coscienza e della percezione soggettiva, e permettono di attingere le vertigini del “gemito universale”: di cogliere la discontinua, “litigiosa” indeterminatezza cosmica.
La visione, la vertigine, sono, come sempre in Manganelli, lavoro della lingua: pazientemente addestrata – come un mistico a maneggiare, per esempio, una sua sapiente e segreta tecnica di controllo allucinatorio del respiro – a un doppio movimento (un respiro, appunto) di contrazione e di espansione, di “perdita significante e di gloria tormentosa”. La lingua si sottopone, dunque, prima ancora della mente, a un’ascesi che spoglia tormentosamente le parole del significato e delle “idee”; e quindi a una coltura intensiva (e forzata) del loro potere evocativo.
Come la letteratura deve narrare di accadimenti che si tengono al di qua o si spingono molto al di là dell’umano, la lingua sarà tenuta a lavorare di qua o di là dei propri significati: mai dentro la referenza, il suo oggetto mentale condiviso. Si educherà (sono regole, queste, della poesia di tutti i tempi) a una potentissima dilatazione delle sue associazioni primarie, foniche e fisiche; e allo stesso tempo alla percezione, dietro le parole, delle loro figure ultime e astratte. Se, come danno ragione di sospettare le prime esplorazioni, un freddo inferno di nulla dilaga dietro e fra le forme sensibili (“tu non vedi trams, balene, olmi, galli di monte, ma sempre, dovunque, il metamorfizzato diomorto”, Hilarotragoedia, p. 34) e se “solo il niente non patisce limite all’essere polimorfo o pantamorfo”, una lingua capace di discorrere di quel metamorfico niente dovrà imitarne gli espedienti e farsi a sua volta illimitatamente cangiante, vuota e carica d’echi. Un’accorta dieta mentale farà dunque, a forza di esercizi di spogliazione, del diaframma “una arnia di carenze, cavità, orifizi, luoghi d’acqua e d’aria”. E dentro quel cavo d’acqua e d’aria (una Palude interiore?) nasceranno nuove parole “da rimbalzi di fonemi, echi di caverne ventose, epifanie di miti, eventi, telefonate, un geyser” (Discorso dell’ombra e dello stemma, p. 70).
La parola, dice altrove Manganelli, ha buia natura d’inferno; come l’inferno “penetra in ogni orifizio, accompagna il mondo in ogni profilo, si accòccola tra suoni, odori, membra, animali, angeli, superni e infimi”. “Pronunciata, vola nel mondo superno e nell’infimo, incatturabile volatile”.
A partire dal Discorso, che finge un divagante procedere parlato, per precipizi e senza riprese, la lingua degli ultimi libri di Manganelli si stacca ostentatamente dai preziosi grafismi che, nel suo delirio di agorafobia, aveva fin lì disegnato la pagina – dalle sintassi intricate dei primi libri, i chiasmi, le simmetrie, “le firme, i sigilli, i paraffi” destinati a fare, dell’assente mondo, un “canovaccio, manoscritto, brogliaccio, su cui ingannare il tempo, in attesa dell’altro, di emendata, definitiva lettura” (Nuovo commento, p. 141) – per assecondare invece gli estri, gli echi, gli umori, gli errori sonori della viva voce.
Un libro intero, Rumori o voci (1987), è dedicato a studiare la vocazione apocalittica della letteratura appunto in termini d’echi e d’errori. L’ultima, bellissima pagina insegue, per allitterazioni, il volo irregolare e ansioso della voce: l’ultima occasione del dialogo col mondo (“digrignare di un universo vocale dentro un universo taciturno”), la possibilità stessa della storia. La voce che si spegne ha i poteri della tromba del Giudizio. Segna, dice Manganelli, la morte del suono, la lacerazione della notte, la fine delle cose, forse un’alba diversa, e sicuramente la resurrezione dei morti: “La voce, furibondo uccello, scende disegno di sillabe per l’aria, in forma di becco infinito, assalta quella che ora è viltà vana, reticenza astuta, e ferisce a fondo le viscere d’aria dell’ostinato diniego. Infine sperimenti il silenzio; il cielo è colmo di suoni morti, piume sonore di volatili, uccisi rintocchi” (p. 145).
A questa lingua uccello, sonante e lirica, sono affidati non solo lo studio di che cosa la Palude sia, e voglia, e faccia; ma anche la formulazione di un contratto accettabile con la Palude stessa, di un patto che è la ragione principale della letteratura per l’esistenza. “Una callida e peritosa trattativa, un sommesso baratto con alcunché di furbo, maligno e stolido, forse una bestia capace di parola, paziente e avvocatesca” (Dall’inferno, p. 26). Per aver rinunciato ai significati, la lingua possiede tanto più affinati sensi corporali, e sa cogliere, radenti sull’acquitrino, le luci mosse e cangianti (“la chiaria dell’alba, il chiarore dell’aurora, la luminosità meridiana, il radioso meriggio, il primo, questo dilucolo della sera”, p. 66); percepisce i versi sottili e mischiati di una brulicante vita acquatica (“sebbene non vi siano suoni concertati, per tutta la palude corre un sommesso crepitio, un viscido scorrere di membrane, un fruscio di rettili, un sommesso cicalio di bozzoli che si schiudono, il tremolio di ali invisibili”, p. 38); discerne “aromi fondi, che hanno qualcosa del gusto ombrato e algaceo delle ostriche”, e gli odori del sangue e della paura, e il lezzo degli escrementi, e il tanfo universale di cadavere “che ha preso il posto dell’arcaica melodia delle sfere”.
Ma come potrà lavorare per trattare la riconciliazione con l’ingegnosa e sfuggente Palude una lingua abituata soprattutto allo iato, alla scissione, alla dicotomia, al resecamento: a dividere e a distinguere, dotata com’è di “ciuffi di occhi”, e innumerevoli papille e polpastrelli e vibrisse e mucose, così da non aver fatto esperienza che di “universi discontinui, patetici e lontani talora, talora imminenti e litigiosi”? Come, se non scoprendo nella Palude la stessa cava e discontinua natura della coscienza che la osserva: e dunque, dietro ai riflessi di pallidi giunchi e torbide pozze d’acqua, un buco fondamentale, un varco, un vuoto, un non essere, una caduta fuori di sé, “una lacuna insondabile e tetra, ma soprattutto distratta”, i resti di un Ade digerente, di un divino sfintere?
Le parole non leniscono il dolore di quella caduta: aggravano, invece, la privazione, l’impotenza, il vuoto, l’assenza. “La letteratura – scrive altrove Manganelli con un bellissimo anacoluto – dà disperazione ai disperati, urli agli assordati, abbaglieranno gli abbagliati e ai famelici, fame” (Discorso dell’ombra e dello stemma, p. 27).
Il destino personale stesso è, del resto, “una frase sgrammaticata, un anacoluto”: interrotto e divagante. Il labirinto, si dice nella Palude, è modello della strada, “stradità” platonica e kantiana; riforme è modello della forma e condizione dei “perfetti disegni” che emergono di sorpresa dalla putredine. La scoperta dì una buia fraternità con la Cosa, o la Macchina, o la Bestia fuori di noi sposta radicalmente la trattativa fra soggetto e oggetto che è compito della letteratura: e che non riguarderà dunque più, come proponevano i primi libri di Manganelli, l’apertura di un pedaggio, di un ponte o di un guado dentro e oltre lei: ma un contratto di non resistenza e di reciproca, se non paritaria attenzione, che fa della coscienza lo spettatore, il destinatario, la chiosa dei macchinamenti della Bestia, dell’orecchio la garanzia del gemito universale e dell’eremita fattosi ormai verme e biscia d’acqua “la didascalia” dei sommovimenti della Palude, il commento e la cronaca della sua dialettica, “il suo lamento, la sua lacrima, la sua disperazione”. “In verità, se non c’eravamo noi rettili, la palude non sarebbe mai diventata terra sacra; noi rettili siamo importanti, soprattutto abbiamo una funzione” (p. 59).
Un attento e assai serio gioco teatrale regola dunque “il connubio insidioso, affettuoso, geloso”, gli scambi fra la non esistenza della mente e la non esistenza della Bestia: che guardandosi inaspriscono, l’una dell’altra, il vizio, la febbre e “l’indecorosa preghiera”; che fingono, l’una per l’altra, i sintomi dell’esistere: “la strettura del corpo, la paura dell’anima”. Ma proprio per quella febbre indotta, per quella finta strettura, per quella paura omeopatica una qualche continuità, “anche se svagata e interrotta”, o la mente o la Bestia debbono pur averla.
In “La Rivista dei libri”, novembre 1991; poi in Ludovica Koch, Al di qua o al di là dell’umano, a cura di Gian Carlo Roscioni, Donzelli, Roma 1997