Edoardo Sanguineti
Il linguaggio di Manganelli
Il linguaggio di Manganelli
Grande teorico della “letteratura come menzogna” (è il titolo di un suo libro del 1967, culminante in un vero e proprio manifesto di poetica), Giorgio Manganelli ha ribadito infinite volte, in prima persona, ma soprattutto in maschera, in travestimento critico, i propri ideali stilistici e linguistici. Il suo Pinocchio, come “libro parallelo”, non è che il caso estremo e più elaborato di quel saggismo egocentricamente anamorfico, per cui tutti gli autori, sotto la sua lente squisitamente deformante, diventavano in qualche modo altrettanti suoi “doppi”, scrittori appunto “paralleli”, sue “ombre” e suoi “stemmi”.
“La parola rètore ha cattivo suono”, anzi “pessimo”, anzi “perfido e sleale”. Precisamente per questo, era sacra a Manganelli. E poi, “il rètore è un fantasma”, assimilabile al mago e all’alchimista, al negromante e al giocoliere, e soprattutto al fool, al buffone, e “si consuma tutto nelle sue frasi”. È un fantasma che si comporta per solito “in modo futile – clangor di catene e spade – per nascondere un discorso vergognosamente importante”. È dedito a “maneggiar le materie della sua fantasia fingendo che siano tutte egualmente irrilevanti, mostrandosi come un irresponsabile, uno stolto, giacché solo come tale gli sarà concesso di ciarlare dei Novissimi, dell’Inferno e della Fine del Mondo, tutti argomenti di pregio, ma moralmente eccessivamente ‘forti’”. Dunque, è un moralista ilarotragico che, dissimulandosi onestamente e disonestamente dietro jeux de mots e callidae iuncturae, opera come “ricercatore dell’inferno”, come “esploratore di un luogo retoricamente insuperabile, la Grande Iperbole in cui si consumano tutte le figure del discorso”.
Abbiamo attinto puntigliosamente a quell’autoritratto verbale che Manganelli si è fabbricato in figura di Thomas De Quincey. Ma non si tratta affatto di una eccezionale e privilegiata identificazione. Tutta la sua blasfema parateologia della morte, degli inferi, del nulla, può appoggiarsi altrettanto bene a Poe (“nel momento in cui la ‘cultura’ abbandona l’inferno, questo passa in proprietà assoluta alla letteratura, a quel misterioso, istrionico e magico uso delle parole che è il perfetto contrario della ‘cultura’” – e “tutta la retorica è istrionismo”, e “il suo compito indispensabile è di custodire colui che tenta la discesa agli inferi, il discorso con l’ombra, la schizofrenia della letteratura”), come a Monsignor della Casa (“la morte è da sempre un tema classico della retorica, giacché di quella si può discorrere solo a quel modo, o tacere” – e “la morte è di per sé una eccellente figura retorica, reticenza, o iperbole, o forse ossimoro: io sceglierei quest’ultimo, come figura della conjunctio oppositorum o della contraddizione, della discontinuità contigua”).
Il linguaggio di Manganelli, che così ostinatamente proiettava le proprie sopra le altrui “angosce di stile”, indiscrimina radicalmente procedimento di scrittura e registro tematico. La “menzogna” letteraria, con il suo allucinatorio barocchismo, fa corpo con l’idea centrale che “la cosiddetta realtà è il male, il limite, il divieto, la miseria, l’assenza di senso”, onde deriva alla scrittura il destino e il compito di farsi “assenza di significato altamente organizzata”. È questa suprema impresa che si legge nel Discorso dell’ombra e dello stemma, consacrato al lettore e allo scrittore “considerati come dementi”. Infatti costoro “debbono amare violentemente le parole che giocano, e dove non c’è gioco di parole, equivoco, nonsense, doppio senso, omoteleuton, semplicemente non c’è la letteratura”. Funebre giuoco, fondato sulla “sensazione acuta e talora straziante” che “tutti i libri siano scritti in una lingua morta”, e in un intervento apparso postumo, sopra «La Stampa» del 9 giugno, discorrendo di D’Annunzio, Manganelli osservava segnatamente che “l’italiano è una lingua morta, e la cosa stupenda è che si può continuare a scrivere in italiano solo perché non esiste più, perché è morto”. L’utopia di Manganelli, il verbicidio come figura di una catastrofe cosmica, di una apocalisse sostanziale, godeva largamente, per dirla alla sua maniera, di un vocabolario “adediretto”, di una sintassi “discenditiva”, manieristicamente palmata di una arcaica sontuosità rituale.
Il necrolinguaggio di questo “lessicomane”, di questo “logotecnico”, di questo “verbiscalco”, congiunge così, di necessità, il falsetto di una astratta cerimonialità oratoria e lo scatto nevrotico del giocoliere psicoticamente lapsico. E certo le coniazioni manganelliane (nel Discorso, per esemplificare, si va da “disimmagine” a “disluogo”, da “innatura” a “inordine”, da “biotanatografia” a “nebuligine”, da “notturnicola” a “nulloso”, da “preterumano” a “vertiginato”) vorrebbero un ragionamento minuzioso, trattandosi, come di regola, di altrettanti sintomi emblematici del suo labirinto mentale e morale. Al centro di questo coltivato e calcolato caos, sta comunque l’ossessione dell’“ipotesi”, come ideale struttura generativa. Anzi, la parola corretta è un’altra, ancora squisitamente sua, poiché la scrittura, per Manganelli, era un sistema di incongrue e inesauribili “hyperipotesi”, di smorfie espressive e intellettuali orrorose e festevoli, di arabeschi distruttivi, di nichilistici doodles.
in “Lettera dall’Italia”, 19, luglio-settembre 1990
“La parola rètore ha cattivo suono”, anzi “pessimo”, anzi “perfido e sleale”. Precisamente per questo, era sacra a Manganelli. E poi, “il rètore è un fantasma”, assimilabile al mago e all’alchimista, al negromante e al giocoliere, e soprattutto al fool, al buffone, e “si consuma tutto nelle sue frasi”. È un fantasma che si comporta per solito “in modo futile – clangor di catene e spade – per nascondere un discorso vergognosamente importante”. È dedito a “maneggiar le materie della sua fantasia fingendo che siano tutte egualmente irrilevanti, mostrandosi come un irresponsabile, uno stolto, giacché solo come tale gli sarà concesso di ciarlare dei Novissimi, dell’Inferno e della Fine del Mondo, tutti argomenti di pregio, ma moralmente eccessivamente ‘forti’”. Dunque, è un moralista ilarotragico che, dissimulandosi onestamente e disonestamente dietro jeux de mots e callidae iuncturae, opera come “ricercatore dell’inferno”, come “esploratore di un luogo retoricamente insuperabile, la Grande Iperbole in cui si consumano tutte le figure del discorso”.
Abbiamo attinto puntigliosamente a quell’autoritratto verbale che Manganelli si è fabbricato in figura di Thomas De Quincey. Ma non si tratta affatto di una eccezionale e privilegiata identificazione. Tutta la sua blasfema parateologia della morte, degli inferi, del nulla, può appoggiarsi altrettanto bene a Poe (“nel momento in cui la ‘cultura’ abbandona l’inferno, questo passa in proprietà assoluta alla letteratura, a quel misterioso, istrionico e magico uso delle parole che è il perfetto contrario della ‘cultura’” – e “tutta la retorica è istrionismo”, e “il suo compito indispensabile è di custodire colui che tenta la discesa agli inferi, il discorso con l’ombra, la schizofrenia della letteratura”), come a Monsignor della Casa (“la morte è da sempre un tema classico della retorica, giacché di quella si può discorrere solo a quel modo, o tacere” – e “la morte è di per sé una eccellente figura retorica, reticenza, o iperbole, o forse ossimoro: io sceglierei quest’ultimo, come figura della conjunctio oppositorum o della contraddizione, della discontinuità contigua”).
Il linguaggio di Manganelli, che così ostinatamente proiettava le proprie sopra le altrui “angosce di stile”, indiscrimina radicalmente procedimento di scrittura e registro tematico. La “menzogna” letteraria, con il suo allucinatorio barocchismo, fa corpo con l’idea centrale che “la cosiddetta realtà è il male, il limite, il divieto, la miseria, l’assenza di senso”, onde deriva alla scrittura il destino e il compito di farsi “assenza di significato altamente organizzata”. È questa suprema impresa che si legge nel Discorso dell’ombra e dello stemma, consacrato al lettore e allo scrittore “considerati come dementi”. Infatti costoro “debbono amare violentemente le parole che giocano, e dove non c’è gioco di parole, equivoco, nonsense, doppio senso, omoteleuton, semplicemente non c’è la letteratura”. Funebre giuoco, fondato sulla “sensazione acuta e talora straziante” che “tutti i libri siano scritti in una lingua morta”, e in un intervento apparso postumo, sopra «La Stampa» del 9 giugno, discorrendo di D’Annunzio, Manganelli osservava segnatamente che “l’italiano è una lingua morta, e la cosa stupenda è che si può continuare a scrivere in italiano solo perché non esiste più, perché è morto”. L’utopia di Manganelli, il verbicidio come figura di una catastrofe cosmica, di una apocalisse sostanziale, godeva largamente, per dirla alla sua maniera, di un vocabolario “adediretto”, di una sintassi “discenditiva”, manieristicamente palmata di una arcaica sontuosità rituale.
Il necrolinguaggio di questo “lessicomane”, di questo “logotecnico”, di questo “verbiscalco”, congiunge così, di necessità, il falsetto di una astratta cerimonialità oratoria e lo scatto nevrotico del giocoliere psicoticamente lapsico. E certo le coniazioni manganelliane (nel Discorso, per esemplificare, si va da “disimmagine” a “disluogo”, da “innatura” a “inordine”, da “biotanatografia” a “nebuligine”, da “notturnicola” a “nulloso”, da “preterumano” a “vertiginato”) vorrebbero un ragionamento minuzioso, trattandosi, come di regola, di altrettanti sintomi emblematici del suo labirinto mentale e morale. Al centro di questo coltivato e calcolato caos, sta comunque l’ossessione dell’“ipotesi”, come ideale struttura generativa. Anzi, la parola corretta è un’altra, ancora squisitamente sua, poiché la scrittura, per Manganelli, era un sistema di incongrue e inesauribili “hyperipotesi”, di smorfie espressive e intellettuali orrorose e festevoli, di arabeschi distruttivi, di nichilistici doodles.
in “Lettera dall’Italia”, 19, luglio-settembre 1990