Riga n.
Alberto Arbasino
Pier Vincenzo Mengaldo
Laboriose inezie per lettori raffinati

Giorgio Manganelli ha sempre alternato proficuamente all’attività di narratore quella di saggista, e del resto una forte componente saggistica agisce nella sua stessa scrittura “creativa” (e viceversa). Ora, dopo aver pubblicato l’anno scorso da Adelphi La letteratura come menzogna (scritti su autori stranieri, prevalentemente di lingua inglese), raccoglie sotto il titolo spiritosamente ossimorico di Laboriose inezie (Garzanti), una serie di interventi, per lo più comparsi su giornali e riviste fra il ’68 e l’85, su classici greci, latini e soprattutto Italiani.

“Lettore vagabondo”, curiosissimo e di rara intelligenza, Manganelli intreccia qui ai referti del suo vizio impunito le affermazioni della propria idea della letteratura come “menzogna”, per dirla appunto col saggio che dà il titolo al libro appena citato. Per cui la letteratura è, nella sua essenza, una “misteriosa emblematica epifania di parole”, cui non si addicono buoni sentimenti e sentimento in genere, calore, verità e impegno, ma frigidezza, disimpegno, finzione e futilità, gusto temerario del gioco linguistico, eventualmente ribalderia. Trascegliamo dal libro garzantiano qualche passo in chiave con queste convinzioni, un po’ riassumendo un po’ citando: la letteratura è per sua norma fantastica, quella “che si fantastica realistica” è un’eccezione: “i poeti sinceri e ‘di cuore’ muoiono, i favolatori e i recitanti hanno buone probabilità di essere duraturi”; è “incauto lasciare la letteratura in mano ai galantuomini”. Certamente, ma forse è poco meno incauto lasciarla in mano ai letterati puri, un po’ come non si deve lasciare ai generali la guerra.

Mi spiego. Le posizioni radicalmente anti-romantiche e anti-umanistiche di Manganelli appartengono certamente a una linea frequentata e significativa del moderno pensiero sulla letteratura e l’arte, che va da Flaubert e Baudelaire a, che so?, Pessoa (“Sentire? Senta chi legge”). Si ha però l’impressione che, dopo aver espletato a suo tempo un’utile funzione nella polemica contro i Cassola, i Bassani, i Moravia (cui neppure qui è risparmiata qualche buona frecciata postuma), a loro volta queste posizioni siano datate, e sappiano d’accademico. E forse, come è futile ogni avanguardia che abbia rimosso da sé l’angoscia, così è poco interessante ogni elogio della frigidezza estetica che, divenuto ordinaria amministrazione, perda la sua nobilitante parentela col demoniaco e il disumanizzante, già indicata in modo perfin troppo paradigmatico da Mann nel Doktor Faustus (il diavolo a Leverkühn: “L’amore ti è vietato, perché riscalda… Freddo ti vogliamo…”).

Ma non vorrei esagerare. Una funzione igienica queste posizioni possono sempre recuperarla, in particolare quando si tratta di svelare nell’ipocrita letteratura dei buoni sentimenti la nuda e cieca apologia della repressione. È il caso di Cuore, il cui sadismo reazionario Manganelli attacca in pagine insolitamente vibranti, oltre che come sempre spiritose: “Ecco dunque ritornare tra noi questo antico, immortale mostro; il Cuore di Edmondo De Amicis. Tornano gli occhi lacrimosi di sanie verdastra, i grandi denti aguzzi e affettuosi, la camminata languida del rettile, gli occhi ipnotici, i polpastrelli sensibili e cauti. Cammina apparentemente a caso, ma la sua lingua salivosa e morbida non manca mai la preda; è ciondolone e isterico, accarezza, titilla e deglutisce” e via dicendo. E fa piacere leggere queste pagine oggi, quando il rivoltante libercolo, profittando del riflusso, è di nuovo sugli scudi, e tocca perfino sentirlo lodare da molto autorevoli rappresentanti accademici della sinistra ufficiale, magari con l’argomento aggiuntivo che in Cina sarebbe diventato un livre de chevet (il che a me comunica solo viva apprensione sulle sorti di quel grande Paese, che anche in ciò si appresta dunque a raggiungere la Madre Russia).

Con la stroncatura di Cuore fanno coppia quella di un altro sinistro benpensante, l’Antonio Ranieri amico e, si fa per dire, benefattore di Leopardi, insigne, per la sua totale incomprensione del genio leopardiano, e l’eversione timorosa, da paragonare alla celeberrima di Gadda, del Foscolo con la sua “ipertrofia dell’io” (indimenticabili l’accostamento al Conte Dracula e l’immaginario invito all’autore dei Sepolcri ad andarsi a leggere Gozzano, quel Gozzano che in altre pagine Manganelli ci definisce acutamente, facendo centro sulla sua costituzionale, e consapevole, “falsità”). E anche con Pascoli si capisce bene che il critico non è a suo agio. Ma ci possono essere sorprese. All’antipatia per Foscolo fa infatti riscontro la simpatia per Alfieri, grato a Manganelli per la totale astrazione e dismisura della sua lingua, “assolutamente cerimoniale”; e un altro campione dei buoni sentimenti, il Pellico delle Mie prigioni, è rivalutato, controcorrente, per la sua acuta intuizione delle leggi dell’universo carcerario.

Dal lato del pensiero critico, non meraviglia che il principale bersaglio di questo nemico dei sistemi e della seriosità sia, assieme ai suoi epigoni novecenteschi, De Sanctis, il “galantuomo” De Sanctis. Non staremo a controdedurre, né a osservare che piove un po’ sul bagnato.

La forza delle idee critiche di Manganelli sta precisamente nella loro provocatorietà e nel loro valore euristico, assistito anche in questo libro da una scrittura scoppiettante e da un rapporto che definirei erotico con la lingua, qualità rara in Italia (e mi azzardo a suggerire che Manganelli è più convincente scrittore nella saggistica che nella narrativa).

Che quadro di preferenze emerge da questo libro per l’ambito della nostra letteratura? (Trascuriamo gli articoli su greci e latini che meno si prestano a estrarre una linea interpretativa coerente). Quale sia la strategia che guida i vagabondaggi del Manganelli critico per strade e sentieri delle patrie lettere è lui stesso a dircelo: “immergersi… nei vicoli, nei chiassetti, nei bordelli dei quartieri più loschi della letteratura italiana”. Al centro del quadro campeggia il grande Aretino con la sua “turpitudine istituzionale” e l’inarrestabile inventività stilistica applicata al referto di una realtà degradata e puttanesca (“che una prosa ribalda e pornografica – annota Manganelli – risulti anche letteralmente impegnativa, mi par cosa assai pedagogica. In chiesa si va gratis, al bordello si paga: giusto”). Gli fanno corona sapidi narratori medievali, scrittori irregolari e bizzarri del Rinascimento, da Folengo e Berni a Cellini e Doni, frondosi e glaciali prosatori secenteschi fra i quali spicca Bartoli (e a questo autore, nella cui alta valutazione – contro De Sanctis – Manganelli s’accorda con Leopardi, egli mi pare assai legato nella sua scrittura: “di uno scrittore che non ami Bartoli diffiderei grandemente”).

Spostandoci avanti, registriamo per esempio l’adesione a Leopardi – delle Operette è messa giustamente in rilievo la “gioia teoretica” – e a Belli, ma ancor più a certi aspetti di Manzoni, come la figura di Don Abbondio, “l’eterno, il terribile”, colta da Manganelli in tutta la sua nera forza, o la digressività in cui sembra risolversi per intero Fermo e Lucia. Ma da queste parti il vero punto focale degli interessi di Manganelli è la prosa narrativa di secondo Ottocento. Cauto verso Verga, come si deduce da vari accenni, Manganelli liquida impeccabilmente il suo minore contraltare Capuana (“talora par di avvertire nella sua prosa approssimativa un sentore di dopobarba, che potrebbe essere D’Annunzio”), e invece porta in alto, accanto all’immortale autore di Pinocchio, una serie di prosatori linguisticamente umorosi appartenenti alla linea di una “narratività senza narrazione”, come benissimo il critico definisce il loro archetipo, il grande Sterne. Sono soprattutto scrittori gravitanti attorno alla cosiddetta “Scapigliatura”, dal precursore Rajberti a Dossi, Zena, Faldella e a quell’Imbriani di cui proprio in questi anni è in atto un giusto recupero (“come è cattivante la sorte dell’irrimediabilmente minore!” chiosa Manganelli a proposito di uno di questi).

Ma attenzione. Manganelli è troppo acuto per lasciarsi sfuggire del tutto i limiti di costoro. Recensendo Una serenata ai morti di Faldella (libro per me quasi illeggibile) egli osserva esattamente: “C’è una strana distorsione nel mondo di Faldella, un prodigioso linguaggio che invano corteggia una fantasia peritosa, un gusto prudente”. Infatti, e mi domando se riserve del genere non potrebbero colpire (ma Manganelli difficilmente lo ammetterebbe) anche Dossi e Imbriani e perfino il loro, più grande, erede Gadda, e insomma l’impasse generale di una narratività non solo senza narrazione ma che al fondo concepisce il narrato come pretesto del fuoco d’artificio stilistico.

Diciamo la verità: molto spesso ciò che ci rimane in mente di questi scrittori è solo il loro ideale glossario. Ma questo ci spiega forse anche le ragioni profonde delle simpatie di Manganelli, che anche qui dichiara continuamente il suo debole per i Dizionari, quello del Bartoli o il grande Tommaseo o lo stesso Artusi letto un po’ come un potenziale Vocabolario, con le stimolazioni linguistiche e fantastiche dei loro lemmi (ecco ad esempio nel Tommaseo “uno splendido Sanguedotto, che dichiaro cosa mia, e nessuno osi”).
Agli scrittori che sottraggono troppo la narrazione della narratività può avvenire come a quel tale di una celebre barzelletta che amava sopra tutti i libri l’elenco del telefono, perché “ci sono tanti personaggi”: che il Vocabolario, come serbatoio di tutti i possibili linguistici, appaia loro la più affascinante delle narrazioni.
 
 
In “La tribuna di Treviso”, 25 marzo 1986
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