Riga n.
Alberto Arbasino
Alberto Arbasino
Bambole e pipistrelli

Dove si appiatta oggidì la Letteratura, disturbata e in­fastidita fra il mercato, le merci, i consumi? Una raffi­nata scrittura padronale – Livio Garzanti: Una città come Bisanzio, Oddone Ca­merana: L’enigma del cava­lier Agnelli – ritrasforma pensosamente dall’interno le maniere narrative usate, con eleganti implosioni “soft”, o­mologhe dei più delicati rias­sestamenti e tormenti dell’in­telligenza borghese contemporanea. Il gelo delle infan­zie tarpate; le fitte della ma­turità disattesa; la scarsa impazienza per la volgarità; la connivenza coi fantasmi atto­niti della beneficenza carce­raria... Dall’inferno erom­pe invece, con Giorgio Man­ganelli, l’animatissima putre­dine di un neo-Seicento iper­barocco e post-Beckett, esor­bitante e “minimal”.

Putrescenze inesauste, di profilo alto e sublime. Ceri­monie metafisiche e avventu­rose e lutulente rimescolano secrezioni e slabbramenti e metamorfosi e fosforescenze, nella “infimità” di una landa assai dantesca in subbuglio come il retropalco di un tea­tro d’opera (scenografie di Eugene Berman), nonché percorsa dai predicatori ter­roristi dell’anima di Joyce.

Ripicche e rimbecchi ri­correnti, orchestrati da un dispettoso Collodi perfido mentore, fra trattatisti di ef­fettistica saturnina, causidici delle astuzie provvidenziali, teologi dell’arguzia fecale. Stizze maestose o meschine fra “soffi” ultramondani di Pierre Klossowski, e “de/composti” di Cioran, che si tramutano rapidissimi in mo­stri onirici di Dalì e Tanguy, mentre la Biblioteca di Don Ferrante e quella di Babele si scontrano con la Colonia Pe­nale di Kafka e con gli alluci­natori Canti di Maldoror...

... E il muco primordiale offeso che agita i risentimen­ti edipico-placentari di Gio­vanni Testori incrocia le discese di Luca Ronconi a un Ade fatto di scaffalature pol­verose, capigliature e rilega­ture disfatte, uscieri franan­ti... fra la Caduta della Luna e le Città Invisibili... E via, corse nel labirinto, e partite a dadi con una Alice forse piuttosto sortita da una pittu­ra di Bacon... E nel vertigi­noso groviglio delle tenebre escrementizie, molli, oscure, smisurate, pelose, un’inces­sante maieutica di ciceroni saccenti e bugiardi e loquaci, “cerretani” assai poco virgi­liani, dèi che non sono mai veri, bensì mancati dèi fal­si... coinvolti in pompose pseudo-prolusioni accademi­che, in indecorosi inseguimenti fra suburre di nasi, di cazzi, di topi parlanti e spar­lanti...

Tutto il turgore ebbro e gelido della sapienza orato­ria gesuitica, golosa del tene­broso e dell’immondo e del fetido, fino alle intimazioni capillari nei confessionali e dai pulpiti sulla sconcezza e le puzze delle deiezioni scaricate dalla miserevole natura umana... Dunque, sospetti industriali gravissimi su un Creatore arcaico e inesperto e deplorevole che confezionò esserini umani paragonabili a un’automobile che va nutri­ta a piccole dosi più volte al giorno anche se sta ferma, a un computer che evacua cac­ca a va perciò tenuto in una stalla cambiando la paglia...

Ma come nel film Alien, una atroce creatura estrema­mente aliena, bambola e pi­pistrello o fantoccio di Carlo Rambaldi per horror movies di successo, si insedia per “usucapione simbiotica” in un corpo defunto e vivente che diviene suo “cibo e latri­na”, mentre esclamativi e vo­cativi vorticano in una defe­cazione grandiosa e deliran­te. Lirismo pirotecnico molto macabro, sgangheratezze studiosissime attraverso Cannocchiali Aristotelici. Ce­lebrazioni etiliche di un cat­tolicesimo innamorato dell’impurità. “Sono rettile, uc­cello, scoiattolo, ratto, talpa, colubro, icnemmone, scor­pione, pipistrello, anfesibe­na; ma di tutti costoro ho cose che altri di costoro non conosce; ali di talpa e sguar­do di pipistrello, come ratto volo, colubro scavo cunicoli nel cuore della terra. Ho pau­ra”...

“Con letizia mi riconosco abitato dal male, veloce laz­zaretto, fulmineo lebbrosa­rio, precipitoso cronicario, ragunata teratologica, cruc­cio dei teologi, spasimo degli storici delle religioni”... “Non c’è fessura, orifizio, gronda, guglia, gradino, bal­za, buratto, rupe, roccia, non c’è minimo fiore spuntato su­gli spazi aerati del nulla, che io non abbagli con la mia testa infuocata”... “Ecco ero destriero, palafreno, ronzi­no, ero levriero e falcone, e non avevo meta, ma sì avevo percorso, e correndo lo per­correvo”... (Ma certi nostri più cari morti, quando per intermittenze riusciamo a in­tercettarli, chiedendo, giac­ché sentivano spesso freddo, in vita, “Fa freddo, lì?” – rispondono piuttosto, desola­ti e disperati: “Si sta stret­ti”...).

Già col Discorso dell’om­bra e dello stemma – e col “paratesto” che accompagna questi libri sotto forma di “risvolto editoriale” – Man­ganelli aveva dato un cospi­cuo colpo all’insù alla sua carriera letteraria, e al desti­no stesso della nostra lettera­tura in questi anni. Ora, con Dall’inferno, davvero non si vede un altro uso più im­pressionante, concavo e ar­cano, della nostra lingua.
 
 
“L’Espresso”, 25 agosto 1985; poi, con aggiunte, tagli e altre varianti, in Alberto Arbasino, Ritratti italiani, Adelphi, Milano 2014, pp. 317-319

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