Riga n.
Alberto Arbasino
Maria Corti
Gli infiniti possibili di Manganelli

Che cosa significa domandarsi oggi se uno scrittore “entra nella letteratura”? Il lettore, e ancora più il critico di professione, incontrano spesso delle perplessità nel rispondere a questa domanda, immersi come sono in un universo saturato di carta stam­pata: non solo perché si stampa troppo, e il troppo in tutte le cose umane genera confusione, ma perché i confini tra il letterario e il non letterario vanno sensibilmente mutando sicché, dopo tanti secoli di letteratura ben codificata nei suoi generi prosastici e poetici, par di sentire, come un benessere, l’aria fresca che viene dal documentario, dall’esercizio di chi trasferisce direttamente sulla pagina le sue esperienze di uomo vivo, ma incolto, di uomo nuovo, ma emarginato dal sistema cul­turale.

A questo punto però ci si accorge che dentro la domanda è celato qual­cosa di molto sottile e insieme di molto attuale, che richiede un certo numero di “distinguo”: da un lato c’è il fatto che il letterario è per fortuna una ma­teria indocile, che sfugge agli schemi culturali e tende a sfuggire persino ai modelli della cultura di un’epoca; d’al­tro lato c’è l’equivoco, o forse addirit­tura con bella espressione coniata dai logici la “contraddizione in termini”, nati l’uno e l’altra appunto a causa dell’esplodere del documentario, per cui di fronte a un testo di “squisita” inventività, tematica o formale che sia, c’è sempre qualcuno che grida con indignazione: “Ma è letterario!”.

A farci brillare davanti il problema, nella sua suggestiva complessità, è sta­to il recentissimo libro di Giorgio Manganelli dal titolo Centuria e sotto­titolo Cento piccoli romanzi fiume. Uno lo legge e d’istinto dice: “Ci sia­mo. Questo è un autentico scrittore”. Ma poiché ci hanno sempre insegnato a non fidarci dell’istinto, della sua lu­cida innocenza, prendiamo qualche guida, la meno turistica possibile, che ci indichi da dove si entra nella lettera­tura; sembrerebbe che in ogni tempo, e anche oggi, il diritto di chi scrive ad entrare nella cosiddetta letteratura dipenda da almeno due circostanze: la prima è che noi si scorga nella sua ope­ra un insieme di fili, di rapporti che la legano inequivocabilmente, in modo sotterraneo o esplicito, a forme vive o a momenti di tensione del sistema let­terario, a loro volta dipendenti da qualcosa che accade al livello socio-ideologico della realtà. D’altra parte, però, è il medesimo scrittore ad altera­re, con personali provocazioni, l’ordi­ne esistente, a mettere in crisi il mec­canismo delle codificazioni, a modificare di conseguenza la nostra grammatica della visione del mondo; senza quest’ultima operazione, che funzioni avrebbe mai il letterario?

Direi che le due operazioni, solo in apparenza antitetiche, sono presenti in questo libro di Manganelli. che personalmente considero il suo migliore per l’abbandono di un certo manierismo, ma in qualche modo lo sono state in tutta l’opera dello scrittore, da Hilarot­ragoedia (1964) a Nuovo commento (1969), Agli dei ulteriori (1972), ecc., sino a Centuria nell’ambito creativo, da Cassio governa a Cipro (1977) a Pinocchio: un libro parallelo (1977) nell’ambito della creazione dei “doppi”, cioè duplicazioni su modelli letterari, infine entro il suo discorso critico. Questo ultimo non va mai dimenticato nel continuo, grande esercizio intellett­uale, condito di ardori e perplessità metafisiche, che accompagna tutta la produzione manganelliana; da esso deriva lo stretto contatto fra i libri di Manganelli e quello che succedeva e succede contemporaneamente nella cultura italiana. Facciamo la prova: prendiamo gli anni 1963-1964; si riscontra che lo scrittore, mentre non è proprio mai confondibile con nessuno, è stato alle origini del movimento della neoavanguardia una delle voci teori­che più coerenti e di punta, tanto che non è possibile, a parer nostro, scende­re a ragionare sul “formalismo” degli anni sessanta senza fare i conti con gli articoli di “Grammatica”, rivista di brevissima durata di cui era uno dei redat­tori, che ad alcuni italiani parve allora scritta da un marziano; nel numero primo vi si leggeva, a firma di Manga­nelli, che ogni universo è in primo luo­go un universo linguistico, che il lin­guaggio è organizzazione, ma organiz­zazione solo di se stesso, cioè di segni, cioè di niente che sia reale. Lentamen­te Manganelli ha calato la riflessione teorica in testi creativi o, si potrebbe anche dire, ha portato l’immaginazio­ne inventiva a violentare i prodotti del pensiero Da questo incontro dei con­trari, l’astrazione geniale e la vita con le sue fantasie quotidiane, sono nate le possibilità narrative di Manganelli. Prima di venire a Centuria, opera per molti aspetti assai diversa dalle altre, vorrei fare brevissima tappa all’anno 1969, quando Manganelli, pubblican­do Nuovo commento, si è messo per la seconda volta in una posizione di par­ticolare novità entro il contesto cultu­rale italiano: attraverso stimoli e per­corsi personalissimi, cioè per vie intui­tive o per felici antenne nei riguardi del nuovo, egli è arrivato a definire il mondo un “testo”, attraversato da furie di segni, e a “commentare” alquanto sarcasticamente l’infermale testualità della cultura. Riletto oggi, dopo tan­to esplodere, nel mondo, di semiotica e di nozioni definitorie nei riguardi della testualità della cultura, Nuovo commento dà l’esatta misura della capacità di Manganelli di presentire, e quindi trasferire nell’universo creati­vo, gli esiti della riflessione teorica del suo tempo.

Da ciò derivano almeno due diffi­coltà di decodifica dei suoi testi da parte dei critici: l’una dipende dalla natura stessa dell’oggetto, il libro che, per la simbiosi di intensa potenza mentale e sua resa in immagini attra­verso un canale simbolico e retorico, disorienta il lettore letterato, avvezzo a un prodotto narrativo più credibile e decifrabile, rispondente alle codifica­zioni del narrare A Manganelli invece piace proprio questa sorta di riflesso, di “duplicazione” artistica del pensa­re, che ha luogo entro i suoi lavori creativi; per questo non potrà mai scrivere un romanzo, come non ne scrive Borges, non potrà mai aver fede in un personaggio che agisce e men che meno volercela comunicare, cosa che accade a ogni rispettabile romanziere. La seconda difficoltà si lega strettamente alla prima: dietro le situazioni create da Manganelli nei suoi libri non c’è solo intento dissacratorio, c’è anche un suo fare i conti con ciò che, sta per prendere piede nel contesto culturale, con ciò che è nuovo e con cui lo scrittore ha già voglia di misurarsi. Per questo, dire difficoltà di lettura in entrambi i casi significa anche rilevare l’eccezionale stimolo che proviene al lettore dalla tensione e fertilità intellettuale sottesa a testi artistici di Man­ganelli.

Con Centuria lo scrittore fa un u1teriore passo avanti: scrive un libro che offre una semantica e un messaggio a più gradini; come dire che c’è va primo gradino di lettura al quale Centuria è leggibilissimo, suggestivo, appetibile, pieno di humour, insomma delizioso. Come ha potuto avvenire che un libro di Manganelli sia leggibilissimo? Prima di tutto perché qualcosa di molto diverso si è operato a livello formale: abbandonate le complesse strutture di tipo manieristico la sintassi argomentativa, e perciò molto ipotattica, i giochi d’artificio di tropi e le altre retoriche figure, Manganelli ha optato per una lucidità formale, un nitore stilistico, una sapientissima semplicità di scrittu­ra che conferiscono luce nuova all’intelligenza del discorso narrativo. Spie della ragione del cambiamento forse offre il risvolto di copertina con l’ironico accenno alla “retorica, recente ritrovamento delle locali Università”: nemico costituzionale del chiacchiera­to, del banalizzato, del ridondante, come può Manganelli non fare fagotto a data 1978-1979 di fronte all’esplodere di congressi e congressini, centrali e periferici, tutti sulla signora retorica, ormai distesa sopra i tavoli anatomici delle università, sezionata, lei e i figlioletti tropi, successivamente messi in provetta per indagini ulteriori di laboratorio? Proprio lui che da una quindicina d’anni dona alle patrie let­tere i più raffinati esemplari di prezio­sismo manieristico? Ed eccolo allora rivolgersi a una scrittura esatta, lucida, magistrale, senza uno sbaffo, senza un di più, che solo una consuetudine di più lustri con l’artificio retorico poteva generare.

Ancora dal risvolto di copertina si ricava l’avvertimento: “Il presente volumetto racchiude in breve spazio una vasta ed amena biblioteca; esso infatti raccoglie cento romanzi fiume, ma così lavorati in modi anamorfici [glossiamo “in prospettiva deforman­te”], da apparire al lettore frettoloso testi di poche e scarne righe [...]. Libricino sterminato, insomma”. Al solito Manganelli evidenzia la struttura o tessitura del suo textum, a cui va adat­tata con squisito rigore ogni fabula; sul disordine apparente di cento racconti c’è, a dominare, la trama intellettuale del libro, percepibile a un gradino secondo di lettura entro ogni individuum narrativo, ognuno dei cento, per l’ap­punto. Il senso vero dei racconti è creato, è determinato da questa trama intellettuale che ha funzione di grande regista: i primi racconti la prefigurano al lettore, gli altri man mano l’affinano e la giustificano. Vediamo allora me­glio come il libro è fatto: vi sono cento minuscoli testi narrativi, ciascuno del­la precisa lunghezza di una facciata e mezza, che hanno tutti a titolo il nume­ro progressivo da uno a cento quasi a suggerire che di serie si tratta, come i giorni del mese. Il protagonista è pre­valentemente un personaggio maschi­le, non meglio identificato, detto “un signore”; ad esempio, ventitre dei primi trenta testi iniziano appunto con una frase che ha per soggetto “un si­gnore”; raramente il protagonista è indicato con “un uomo”, “egli”, “costui”; eccezionalmente è protagonista “una signora” (racconto Venti), l’imperatore (racconto Ventotto).

Questo signore è solitario, ma intorno a lui si muovono nel mondo alcune persone; egli avverte che in loro sta il pericolo; qualche volta appare in una stanza, più spesso in strada, non dialoga e non monologa, ha idee meta­fisiche più o meno precise; ma pensa a tutto il narratore, che parla di lui in terza persona. In che rapporto, vien fatto di chiedersi, sta un tale personag­gio col narratore? Vi è identificazione fra il soggetto dell’enunciato e il soggetto dell’enunciazione? In parole più semplici è Manganelli quel signore? La domanda, pertinente in ambito di narratologia, non lo è più in testi-racconti come i nostri cento, proprio per il processo sopra descritto, così caro all’autore, per cui il racconto è il riflesso, la duplicazione del pensiero, della ri­flessione metafisica avantestuale. L’identità fra personaggio e narratore c’è sempre, e non c’è mai allo stesso tempo, si è di fronte a una costante dell’ambiguità.

I cento testi si configurano come dei nuclei o, a volte, dei modelli di cento possibili romanzi fiume, dei grumi inventivi, delle sonde, delle pro­spettive; da questi nuclei possono di­partirsi storie infinite. Manganelli si è certo lasciato ispirare da riflessioni molto recenti dei logici, dalle teorie dei “mondi possibili”; non sono infatti gli sviluppi del nucleo o storie vere e proprie a interessarlo, ma le ipotesi varie che gravitano su quella pagina e mezza, l’inafferrabilità del numero dei mondi possibili, sospesi in attesa di attuazione; infine, il gioco combinato­rio degli elementi schematicamente esposti nella pagina e mezza. Questi pezzi di narrazione sono pezzi del mondo e per questo l’autore vi concentra tutta la sua potenziale ermeneuti­ca; vi è un racconto, il Ventuno, che ci mette sulla strada: “Ad ogni risveglio, il mattino – un risveglio riluttante e che si potrebbe definire pigro – il signore inizia con un rapido inventario del mondo. Da tempo si è accorto che ogni volta si sveglia in un punto diver­so del cosmo, anche se la terra che è suo abitacolo non appare estrinseca­mente mutata. [...] egli sa che, durante il sonno, tutto il mondo si è spostato – come dimostrano i sogni – e che ogni mattino i pezzi del mondo, siano o meno impegnati in una partita, sono diversamente collocati, [...] sa di esse­re sospeso nel vuoto, di essere, lui come ogni altro, il centro del mondo, dal quale si dipartono infiniti infiniti. Sa che non potrebbe reggere a tanto orrore, che la stanza, e perfino l’abis­so e l’inferno, sono invenzioni intese a difenderlo”.

I pezzi di narrazione a volte hanno un nucleo ben definito, per esempio il tema dell’incontro: incontro con una voce al telefono, con una fotografia di donna nuda, con l’idea dell’esistenza di Dio, del Tempo, l’idea di diventare un killer, incontro con l’inesistente o con l’assente. Nel testo Otto Manganelli crea una forte tensione intellet­tuale intorno all’idea dell’assenza, che viene scoperta d’un tratto, come un destino, e da cui è arduo separarsi, perché “le assenze non traslocano fa­cilmente”, sicché bisogna abituarsi a coabitare con esse. A volte i pezzi di narrazione, assomigliando terribilmente ai pezzi del mondo, sono assog­gettati allo stesso gioco combinatorio, divengono cioè la simbolica rappre­sentazione delle nostre possibilità di essere; si leggano tutti i testi dedicati al tema del possibile incontro fra il signo­re e una donna: lui l’ama e lei no, lei l’ama e lui no, i due potrebbero amarsi ma in un mondo parallelo, i due potrebbero incontrarsi, ma vi sono infini­te, imprevedibili situazioni di incontro mancato, i due non si amano, ma incontrandosi ogni giorno per caso sono incappati in una sorta di molesta e astratta frequentazione. In questa storia dell’universo per frammenti, Man­ganelli sceglie, tutto sommato, la for­ma più concreta di satira della società, di questa confusa tragicommedia in cui hanno un ruolo dei personaggi come il taumaturgo dello spiritoso testo Trenta (e cfr. mentalmente il Mau­rizio Arena dell’Acquario) o lo squallido impiegato di concetto del Tren­taquattro o la famiglia della buona borghesia del Novantadue, che si prepara ad eventuali agguati e scippi portandosi appresso i regali di nozze non graditi, o l’intellettuale erudito, tanto specialista in “Cose che non esi­stono” da incontrare alla fermata dell’autobus un unicorno. Man mano che la Centuria di testi si avvicina alla fine, i pezzi offrono una lettura del mondo più drammatica e totalizzante: c’è una catastrofe, c’è la lettura del mondo stesso creato come catastrofe, ci sono i morti collocati in “diversi luoghi temporali del nulla”, c’è una ridda borge­siana sul tema della “biblioteca” del mondo e della autodistruzione del tut­to. Perché l’ispezione del reale ci offre un messaggio più ricco che nelle altre opere di Manganelli? Sarà per questa raggiera degli infiniti possibili a livello tematico, ma certo è anche per l’effi­cacia di nuovi modelli linguistici: alle Dicerie del Marino sembrano suben­trate le Operette morali di Leopardi, del tutto un nuovo firmamento verba­le.
 
 
“alfabeta”, 1, maggio 1979
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