Riga n.
Alberto Arbasino
Pietro Citati
Questo Pinocchio è un vero fantasma

Chi apra il nuovo, bellis­simo libro di Giorgio Manganelli (Pinocchio: un libro parallelo, Einaudi) ha una strana sensazione. Que­sto libro parla del burattino più famoso del mondo: di Geppetto, di Lucignolo, del­la Fata dai capelli turchini, della Volpe e del Gatto; del Colombo e del Pesceca­ne; eppure abbiamo l’im­pressione di stare leggendo il volume di un rabbino commentatore della Scrittu­ra, o di un dotto cristiano che chiosi il Vangelo di Giovanni e insegua tutti i sensi, letterali e allegorici, del testo sacro. Sebbene commenti un libro guizzan­te come Pinocchio, l’esege­si di Manganelli ha una gra­vità solenne e devota.

Dapprima soggiorna sulla superficie del testo. Sfoglia per ore una parola, legge at­tentamente un bianco, so­gna sopra ogni lettera, tra­sforma ciascuna di esse in un’iniziale, fantastica sopra un punto e virgola, resta esterrefatto a considerare una virgola, fissa affascinato lo smisurato spazio vuoto che divide una parola dall’altra. Come la pietra gettata nell’acqua suscita cerchi sempre più larghi, ogni frase di Collodi suscita un’eco nella sua mente: ogni eco produce a sua volta altri echi, che si vanno inseguendo sempre più tenui e più flebili. Man­ganelli ascolta in silenzio: ascolta a lungo, fino a quando l’ultima eco si è perduta nel­la sua mente; e raccoglie con pietà religiosa tutti questi suoni, anche quelli che sembrano più remoti dal testo perché è possibile che pro­prio essi ne conservino la verità più segreta.

Presto soggiornare sulla superficie lo annoia. Allora egli scava e penetra in quel­la parte del testo che sta ce­lata dietro le pagine, protet­ta e difesa dalle pagine scrit­te. Laggiù regna il silenzio e la tenebra: o una lievissima luce cimiteriale illumina le intenzioni e i significati che restano ignoti all’autore e al libro. Con infinita pazienza e cautela, Manganelli penetra nel cuore di questa oscu­rità, e vi abita, come un ani­male occhiuto ed ubiquo, co­me un grosso castoro nella sua tana. Esplora, annusa, fiuta gli aromi delle profon­dità. Poi si affretta a comu­nicarci quello che ha odo­rato e intravisto, con la pas­sione della spia che “tradi­sce” il segreto delicato e prezioso, che egli solo pos­siede. Laggiù scorge le pa­role clandestine: quali spazi bianchi nasconda una paro­la, quali parole nasconda uno spazio bianco, quali fra­si lente, aggrovigliate e tor­tuose mascheri la frase più semplice ed elementare. Col tempo si abitua al nuovo soggiorno e gira sempre più velocemente e voluttuosamente nella sua tana. Nell’oscurità o nella penombra intravede degli interi libri non scritti, che Collodi non ha portato alla luce per salvaguardare la ricchezza mi­steriosa del suo volume e Manganelli li estrae, guar­dingo come il cane che por­ta alla luce l’osso gelosamen­te nascosto sotto la terra.

Così egli ci rivela, quali inesauribili tesori intellettua­li si celino nell’esile volu­me di Collodi. Ma, al tem­po stesso, egli costruisce il “suo” libro. Come un musicista secentesco o settecentesco, compie delle variazio­ni intorno ai temi suggeritigli dal testo; e variando all’infinito, allontanandosi in apparenza dal tema, non fa appunto che esprimere quel tema. Egli non si è mai di­vertito tanto come adesso, rinchiuso dentro il ventre secco e legnoso di Pinoc­chio. Invece di mortificarlo, questo limite oggettivo sca­tena in lui un’abbondante ricchezza di immaginazione, un incredibile virtuosismo, una fantasia divorante: insieme eroicomica, magniloquente, funambolica, capzio­sa, tortuosa, deliziosamente cava e sottile.

Il suo libro è un’opera doppia. È un intelligentis­simo esempio di critica; e una fantasia a occhi aperti, che adopera il materiale ver­bale di Pinocchio per creare qualcosa di imprevedibile. Nel gioco incessante della metamorfosi, l’umile edificio toscano diventa così un’ar­chitettura barocca, piena di saloni, di scale, di corridoi, di labirinti, e di piccole stanze nelle quali ci soffermia­mo per riposarci. A contatto con Pinocchio, anche Man­ganelli muta. Abbandona il suo funereo turgore secente­sco, il suo riso rabelaisiano e folenghiano: alleggerisce la sua prosa; e quando sa­le sulle spalle di Collodi per tentare degli esercizi fu­nambolici, rivela una grazia che un tempo ignorava.

Mentre il ritmo di Pinocchio possiede un diabolico e sca­tenato estro burattinesco, il ritmo di Manganelli è invece lento e meticoloso. Avrebbe potuto derubare Collodi an­che di quest’ultimo dono? È probabile che la sua ana­lisi richieda questa lentezza; eppure qualche volta vor­remmo essere trascinati dall’allegria vorticosa, che cent’anni fa trascinò le creatu­re di carne e di legno.

Lo sguardo luminoso e pe­netrante di Manganelli fini­sce per far piombare tutto nel buio: l’esercizio ostinato dell’intelligenza chiarisce gli episodi, le figure e le pagi­ne e, chiarendoli completa­mente, li rende incompren­sibili. Così, certo, Manga­nelli si proponeva. Tutte le porte che abbiamo aperto leggendo il volume paralle­lo restano aperte; “e tutte quelle che infinitamente si sono aperte, continuano ad aprirsi, si apriranno in un infinito brusio di cardini”. Cosa significano queste parole? Malgrado l’apparenza, significano che, dopo l’investigazione di Manganelli, Pi­nocchio si rinchiude nel pro­prio mistero. Il libro infinitamente aperto e un libro infi­nitamente chiuso. Con un ul­timo gesto, Manganelli can­cella ciò che ha scritto: ci confida che il suo testardo lavoro di comprensione ha prodotto soltanto una futile vegetazione parassitaria; e, nel silenzio del suo tasto annullato, ci consegna di nuovo il volume di Collodi, così come una volta è stato disteso.

Quando abbiamo finito di leggere questo libro paral­lelo, ci sorprendiamo ad im­maginare quanti altri libri paralleli potremmo scrivere. Cosa importi che ci man­chi la fantasia, la capacità di inventare trame, di costruire personaggi, di dise­gnare crocicchi, di rappre­sentare la realtà di ogni gior­no? Abbiamo già davanti a noi tutte le trame, tutti i personaggi, tutti i destini possibili: non ci resta che insinuarci nelle pagine dei volumi passati, e raccontare un’altra volta l’Odissea e il Don Chisciotte, Guerra e Pace e I Promessi Sposi, ri­facendoli identici e trasfor­mandoli completamente. Per riuscire in quest’esercizio, ci vuole una sorda, tenebrosa passività: bisogna sostare ogni istante sulle soglie del­la non-esistenza; e, al tem­po stesso, bisogna possedere un’immaginazione variopinta e cialtronesca, come quella dei grandi bugiardi. Con il soccorso di queste doti, qualcuno disporrà sugli scaf­fali della Biblioteca del Pas­sato dei fantasmi di libri, che come quelli di Manga­nelli riusciranno forse più sottili e inquietanti dei 1oro sublimi originali.
 
 
“Corriere della Sera”, 19 novembre 1977
 
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