Pietro Citati
Questo Pinocchio è un vero fantasma
Questo Pinocchio è un vero fantasma
Chi apra il nuovo, bellissimo libro di Giorgio Manganelli (Pinocchio: un libro parallelo, Einaudi) ha una strana sensazione. Questo libro parla del burattino più famoso del mondo: di Geppetto, di Lucignolo, della Fata dai capelli turchini, della Volpe e del Gatto; del Colombo e del Pescecane; eppure abbiamo l’impressione di stare leggendo il volume di un rabbino commentatore della Scrittura, o di un dotto cristiano che chiosi il Vangelo di Giovanni e insegua tutti i sensi, letterali e allegorici, del testo sacro. Sebbene commenti un libro guizzante come Pinocchio, l’esegesi di Manganelli ha una gravità solenne e devota.
Dapprima soggiorna sulla superficie del testo. Sfoglia per ore una parola, legge attentamente un bianco, sogna sopra ogni lettera, trasforma ciascuna di esse in un’iniziale, fantastica sopra un punto e virgola, resta esterrefatto a considerare una virgola, fissa affascinato lo smisurato spazio vuoto che divide una parola dall’altra. Come la pietra gettata nell’acqua suscita cerchi sempre più larghi, ogni frase di Collodi suscita un’eco nella sua mente: ogni eco produce a sua volta altri echi, che si vanno inseguendo sempre più tenui e più flebili. Manganelli ascolta in silenzio: ascolta a lungo, fino a quando l’ultima eco si è perduta nella sua mente; e raccoglie con pietà religiosa tutti questi suoni, anche quelli che sembrano più remoti dal testo perché è possibile che proprio essi ne conservino la verità più segreta.
Presto soggiornare sulla superficie lo annoia. Allora egli scava e penetra in quella parte del testo che sta celata dietro le pagine, protetta e difesa dalle pagine scritte. Laggiù regna il silenzio e la tenebra: o una lievissima luce cimiteriale illumina le intenzioni e i significati che restano ignoti all’autore e al libro. Con infinita pazienza e cautela, Manganelli penetra nel cuore di questa oscurità, e vi abita, come un animale occhiuto ed ubiquo, come un grosso castoro nella sua tana. Esplora, annusa, fiuta gli aromi delle profondità. Poi si affretta a comunicarci quello che ha odorato e intravisto, con la passione della spia che “tradisce” il segreto delicato e prezioso, che egli solo possiede. Laggiù scorge le parole clandestine: quali spazi bianchi nasconda una parola, quali parole nasconda uno spazio bianco, quali frasi lente, aggrovigliate e tortuose mascheri la frase più semplice ed elementare. Col tempo si abitua al nuovo soggiorno e gira sempre più velocemente e voluttuosamente nella sua tana. Nell’oscurità o nella penombra intravede degli interi libri non scritti, che Collodi non ha portato alla luce per salvaguardare la ricchezza misteriosa del suo volume e Manganelli li estrae, guardingo come il cane che porta alla luce l’osso gelosamente nascosto sotto la terra.
Così egli ci rivela, quali inesauribili tesori intellettuali si celino nell’esile volume di Collodi. Ma, al tempo stesso, egli costruisce il “suo” libro. Come un musicista secentesco o settecentesco, compie delle variazioni intorno ai temi suggeritigli dal testo; e variando all’infinito, allontanandosi in apparenza dal tema, non fa appunto che esprimere quel tema. Egli non si è mai divertito tanto come adesso, rinchiuso dentro il ventre secco e legnoso di Pinocchio. Invece di mortificarlo, questo limite oggettivo scatena in lui un’abbondante ricchezza di immaginazione, un incredibile virtuosismo, una fantasia divorante: insieme eroicomica, magniloquente, funambolica, capziosa, tortuosa, deliziosamente cava e sottile.
Il suo libro è un’opera doppia. È un intelligentissimo esempio di critica; e una fantasia a occhi aperti, che adopera il materiale verbale di Pinocchio per creare qualcosa di imprevedibile. Nel gioco incessante della metamorfosi, l’umile edificio toscano diventa così un’architettura barocca, piena di saloni, di scale, di corridoi, di labirinti, e di piccole stanze nelle quali ci soffermiamo per riposarci. A contatto con Pinocchio, anche Manganelli muta. Abbandona il suo funereo turgore secentesco, il suo riso rabelaisiano e folenghiano: alleggerisce la sua prosa; e quando sale sulle spalle di Collodi per tentare degli esercizi funambolici, rivela una grazia che un tempo ignorava.
Mentre il ritmo di Pinocchio possiede un diabolico e scatenato estro burattinesco, il ritmo di Manganelli è invece lento e meticoloso. Avrebbe potuto derubare Collodi anche di quest’ultimo dono? È probabile che la sua analisi richieda questa lentezza; eppure qualche volta vorremmo essere trascinati dall’allegria vorticosa, che cent’anni fa trascinò le creature di carne e di legno.
Lo sguardo luminoso e penetrante di Manganelli finisce per far piombare tutto nel buio: l’esercizio ostinato dell’intelligenza chiarisce gli episodi, le figure e le pagine e, chiarendoli completamente, li rende incomprensibili. Così, certo, Manganelli si proponeva. Tutte le porte che abbiamo aperto leggendo il volume parallelo restano aperte; “e tutte quelle che infinitamente si sono aperte, continuano ad aprirsi, si apriranno in un infinito brusio di cardini”. Cosa significano queste parole? Malgrado l’apparenza, significano che, dopo l’investigazione di Manganelli, Pinocchio si rinchiude nel proprio mistero. Il libro infinitamente aperto e un libro infinitamente chiuso. Con un ultimo gesto, Manganelli cancella ciò che ha scritto: ci confida che il suo testardo lavoro di comprensione ha prodotto soltanto una futile vegetazione parassitaria; e, nel silenzio del suo tasto annullato, ci consegna di nuovo il volume di Collodi, così come una volta è stato disteso.
Quando abbiamo finito di leggere questo libro parallelo, ci sorprendiamo ad immaginare quanti altri libri paralleli potremmo scrivere. Cosa importi che ci manchi la fantasia, la capacità di inventare trame, di costruire personaggi, di disegnare crocicchi, di rappresentare la realtà di ogni giorno? Abbiamo già davanti a noi tutte le trame, tutti i personaggi, tutti i destini possibili: non ci resta che insinuarci nelle pagine dei volumi passati, e raccontare un’altra volta l’Odissea e il Don Chisciotte, Guerra e Pace e I Promessi Sposi, rifacendoli identici e trasformandoli completamente. Per riuscire in quest’esercizio, ci vuole una sorda, tenebrosa passività: bisogna sostare ogni istante sulle soglie della non-esistenza; e, al tempo stesso, bisogna possedere un’immaginazione variopinta e cialtronesca, come quella dei grandi bugiardi. Con il soccorso di queste doti, qualcuno disporrà sugli scaffali della Biblioteca del Passato dei fantasmi di libri, che come quelli di Manganelli riusciranno forse più sottili e inquietanti dei 1oro sublimi originali.
“Corriere della Sera”, 19 novembre 1977
Dapprima soggiorna sulla superficie del testo. Sfoglia per ore una parola, legge attentamente un bianco, sogna sopra ogni lettera, trasforma ciascuna di esse in un’iniziale, fantastica sopra un punto e virgola, resta esterrefatto a considerare una virgola, fissa affascinato lo smisurato spazio vuoto che divide una parola dall’altra. Come la pietra gettata nell’acqua suscita cerchi sempre più larghi, ogni frase di Collodi suscita un’eco nella sua mente: ogni eco produce a sua volta altri echi, che si vanno inseguendo sempre più tenui e più flebili. Manganelli ascolta in silenzio: ascolta a lungo, fino a quando l’ultima eco si è perduta nella sua mente; e raccoglie con pietà religiosa tutti questi suoni, anche quelli che sembrano più remoti dal testo perché è possibile che proprio essi ne conservino la verità più segreta.
Presto soggiornare sulla superficie lo annoia. Allora egli scava e penetra in quella parte del testo che sta celata dietro le pagine, protetta e difesa dalle pagine scritte. Laggiù regna il silenzio e la tenebra: o una lievissima luce cimiteriale illumina le intenzioni e i significati che restano ignoti all’autore e al libro. Con infinita pazienza e cautela, Manganelli penetra nel cuore di questa oscurità, e vi abita, come un animale occhiuto ed ubiquo, come un grosso castoro nella sua tana. Esplora, annusa, fiuta gli aromi delle profondità. Poi si affretta a comunicarci quello che ha odorato e intravisto, con la passione della spia che “tradisce” il segreto delicato e prezioso, che egli solo possiede. Laggiù scorge le parole clandestine: quali spazi bianchi nasconda una parola, quali parole nasconda uno spazio bianco, quali frasi lente, aggrovigliate e tortuose mascheri la frase più semplice ed elementare. Col tempo si abitua al nuovo soggiorno e gira sempre più velocemente e voluttuosamente nella sua tana. Nell’oscurità o nella penombra intravede degli interi libri non scritti, che Collodi non ha portato alla luce per salvaguardare la ricchezza misteriosa del suo volume e Manganelli li estrae, guardingo come il cane che porta alla luce l’osso gelosamente nascosto sotto la terra.
Così egli ci rivela, quali inesauribili tesori intellettuali si celino nell’esile volume di Collodi. Ma, al tempo stesso, egli costruisce il “suo” libro. Come un musicista secentesco o settecentesco, compie delle variazioni intorno ai temi suggeritigli dal testo; e variando all’infinito, allontanandosi in apparenza dal tema, non fa appunto che esprimere quel tema. Egli non si è mai divertito tanto come adesso, rinchiuso dentro il ventre secco e legnoso di Pinocchio. Invece di mortificarlo, questo limite oggettivo scatena in lui un’abbondante ricchezza di immaginazione, un incredibile virtuosismo, una fantasia divorante: insieme eroicomica, magniloquente, funambolica, capziosa, tortuosa, deliziosamente cava e sottile.
Il suo libro è un’opera doppia. È un intelligentissimo esempio di critica; e una fantasia a occhi aperti, che adopera il materiale verbale di Pinocchio per creare qualcosa di imprevedibile. Nel gioco incessante della metamorfosi, l’umile edificio toscano diventa così un’architettura barocca, piena di saloni, di scale, di corridoi, di labirinti, e di piccole stanze nelle quali ci soffermiamo per riposarci. A contatto con Pinocchio, anche Manganelli muta. Abbandona il suo funereo turgore secentesco, il suo riso rabelaisiano e folenghiano: alleggerisce la sua prosa; e quando sale sulle spalle di Collodi per tentare degli esercizi funambolici, rivela una grazia che un tempo ignorava.
Mentre il ritmo di Pinocchio possiede un diabolico e scatenato estro burattinesco, il ritmo di Manganelli è invece lento e meticoloso. Avrebbe potuto derubare Collodi anche di quest’ultimo dono? È probabile che la sua analisi richieda questa lentezza; eppure qualche volta vorremmo essere trascinati dall’allegria vorticosa, che cent’anni fa trascinò le creature di carne e di legno.
Lo sguardo luminoso e penetrante di Manganelli finisce per far piombare tutto nel buio: l’esercizio ostinato dell’intelligenza chiarisce gli episodi, le figure e le pagine e, chiarendoli completamente, li rende incomprensibili. Così, certo, Manganelli si proponeva. Tutte le porte che abbiamo aperto leggendo il volume parallelo restano aperte; “e tutte quelle che infinitamente si sono aperte, continuano ad aprirsi, si apriranno in un infinito brusio di cardini”. Cosa significano queste parole? Malgrado l’apparenza, significano che, dopo l’investigazione di Manganelli, Pinocchio si rinchiude nel proprio mistero. Il libro infinitamente aperto e un libro infinitamente chiuso. Con un ultimo gesto, Manganelli cancella ciò che ha scritto: ci confida che il suo testardo lavoro di comprensione ha prodotto soltanto una futile vegetazione parassitaria; e, nel silenzio del suo tasto annullato, ci consegna di nuovo il volume di Collodi, così come una volta è stato disteso.
Quando abbiamo finito di leggere questo libro parallelo, ci sorprendiamo ad immaginare quanti altri libri paralleli potremmo scrivere. Cosa importi che ci manchi la fantasia, la capacità di inventare trame, di costruire personaggi, di disegnare crocicchi, di rappresentare la realtà di ogni giorno? Abbiamo già davanti a noi tutte le trame, tutti i personaggi, tutti i destini possibili: non ci resta che insinuarci nelle pagine dei volumi passati, e raccontare un’altra volta l’Odissea e il Don Chisciotte, Guerra e Pace e I Promessi Sposi, rifacendoli identici e trasformandoli completamente. Per riuscire in quest’esercizio, ci vuole una sorda, tenebrosa passività: bisogna sostare ogni istante sulle soglie della non-esistenza; e, al tempo stesso, bisogna possedere un’immaginazione variopinta e cialtronesca, come quella dei grandi bugiardi. Con il soccorso di queste doti, qualcuno disporrà sugli scaffali della Biblioteca del Passato dei fantasmi di libri, che come quelli di Manganelli riusciranno forse più sottili e inquietanti dei 1oro sublimi originali.
“Corriere della Sera”, 19 novembre 1977