Riga n.
Alberto Arbasino
Giovanni Raboni
Ti rifaccio l'Otello

Appropriarsi di un capolavoro altrui, dominar­lo, ridurlo a specchio della propria natura, a immagine della propria immagine: che prospettiva affascinante! Una volta, i pittori copiavano i qua­dri dei maestri contemporanei per impadronirsi del loro me­stiere o per soddisfare le esi­genze dei collezionisti; oggi, nell’epoca della riproducibilità tecnica, i pittori rendono ten­denziosi omaggi ai maestri del passato nei modi più o meno ambigui, più o meno ironici, più o meno deformanti dell’“après de”. In una delle loro cronache fantastiche, Borges e Bioy Casares raccontano di uno scrittore, certo Cesar Paladion, la cui sterminata produzione consiste nella trascrizione fede­lissima, parola per parola, vir­gola per virgola, di libri famosi, dal Vangelo secondo San Luca al Segugio di Baskerville, dal De divinatione alla Capanna dello zio Tom. È il trionfo del “ready made”, il culmine dell’arte della citazione...

Scherzi a parte, chiunque la­vori con le parole è stato sfio­rato, almeno una volta, dall’ebbrezza vertiginosa, non dico del trascrivere, ma del riscrivere: riscrivere un mito (si ­pensi a Thomas Mann, a Gide, a Giraudoux, a mille altri), riscrivere una poesia (e qui l’e­lenco potrebbe abbracciare tut­te le traduzioni cosiddette “d’arte”). Non c’è bisogno di credere – anche se l’ipotesi è suggestiva – che la letteratura sia, soprattutto oggi, un immenso sistema di citazioni, per esser convinti che il libro “di secondo grado” ha, nel panorama culturale del nostro secolo, una funzione e un rilievo di prim’ordine. Nemmeno Giorgio Manganelli (ma si potrebbe forse azzardare un “tanto meno Giorgio Manganelli”) ha potuto – né, si capisce, ha voluto – sot­trarsi a questa tentazione. Forte di una straordinaria capacità di adeguamento stilistico, egli ha preso di petto un testo e un soggetto piuttosto impegnativi, per non dire proibitivi: nientemeno che l’Otello di Shake­speare. Perché proibitivi? Ma perché dell’Otello – e in particolare di Jago, suo virtuale protagonista – tutto è stato detto, tutte le interpretazioni sono state date, sia sul palcoscenico che in sede esegetica e filologica.

Vittima della gelosia e dell’emarginazione o mostro di perfidia fine a se stessa, rina­scimentale campione di ma­chiavellismo o anticipatore di un decadentistico mal di vivere rovesciato in gelido furore distruttivo: comunque lo si sia voluto o lo si voglia vedere, Jago è sempre Jago, è sempre lo Jago di Shakespeare nella sua equivoca multiforme interezza; impossibile inventarne una di­mensione che già non gli ap­partenga, renderlo “moderno” visto che già lo è, darne una versione parodistica dal mo­mento che già Shakespeare l’ha visto, oltre che in chiave tragica e raccapricciante, anche in chiave comica.

Chi da queste considerazioni volesse dedurre un’oziosità o superfluità dell’impresa di Manganelli rischierebbe, tutta­via, di prendere una cantonata. Non terrebbe conto, cioè, del fatto che l’applicazione di ­Manganelli non è avvenuta sul piano psicologico, ma su quello del linguaggio; che la sua parodia non riguarda il personaggio o i personaggi, ma precisamente la struttura linguistica e metaforica entro la quale essi si aggirano, alla lettera, come belve in gabbia. Ed ecco, dunque, la trovata: fare dell’intera tragedia un monologo di Jago, un suo confidenziale, pacato rapporto ai lettori-spettatori. Disteso e tranquillo, perfetta­mente padrone di sé, egli si rivolge al pubblico, come avverte in didascalia lo stesso Manganelli, col tono “di chi sappia del tutto ciò che dovrebbe spiegare”, e quindi, aggiungerei, di chi prevede fino all’ultimo dettaglio ciò che è successo e tornerà a succedere.

Gli episodi della tragedia scorciati e rarefatti, ma fedeli al testo shakespeariano, nascono da questo monologo più ancora di quanto non si inseriscano in esso. È Jago a estrarli, si direbbe, dalle proprie parole, facendone comparire sulla scena i protagonisti con l’atteggiamento e quasi con il gesto di prestigiatore che estrae dal proprio cappello conigli bianchi e conigli scuri – e, naturalmente, fazzoletti. E poiché “sa già del tutto ciò che dovrebbe spiegare”, è lui stesso, Jago, a preparare e pregustare, insieme al proprio trionfo, anche la propria rovina, riunendo in un unico, razionale progetto o ri­cordo l’impulso della distruzio­ne e quello dell’autodistruzio­ne.

Non so fino a che punto Cassio governa a Cipro rappre­senti un momento “importan­te” del lavoro di Manganelli. Fra l’altro, bisognerebbe sapere se la sua composizione precede o segue la composizione di quel bellissimo libro, pubblicato lo scorso anno, che è Sconclusio­ne, nel quale mi era parso di cogliere gli indizi di un notevole superamento della propensione dello scrittore per le supreme delizie dell’elusione, del ma­scheramento e dell’artificio. Ma questo è un discorso che si potrà fare meglio in seguito, quando disporremo di nuovi testi manganelliani da meditare e discutere. Per il momento, limitiamoci ad accogliere questa singolare operetta come un’ul­teriore conferma dell’acrobati­ca, irridente bravura del suo autore.
 
 
“Tuttolibri”, supplemento de “La Stampa”, 5 novembre 1977
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