Alfredo Giuliani
Queste parole sono un diluvio
Queste parole sono un diluvio
Una volta, per spiegarmi quella bizzarra “cosa stilistica” che è lo scrittore Giorgio Manganelli, una viziosità verbale così signorile, astratta, e insieme così umoresca, ho supposto che il Leopardi delle Operette morali, dopo un regolare trattamento psicanalitico, avesse imparato a ridere col ventre, a filosofare parodisticamente dentro il sogno, delusorio ma gradevolissimo, dell’onnipotenza. Dategli, dicevo, “l’infinita vanità del tutto” e vedrete esplodere la sua ilarità di sapido profanatore del Grande Nulla. Dateg1i la fine del mondo, e lui la trasformerà in una cerimonia retoricamente prestigiosa. Quel burlesco e pseudoteologico trattato sul Testo Inesistente che Manganelli ha intitolato Nuovo commento dichiara il Grande Nulla “nichilsimile”, ossia privo del valore che avrebbe un vero e metafisico Nulla. Siamo, insomma, ai confini dell’humour nero, dove non si sa assolutamente come andrà a finire lo scherzo.
Per filosofare parodisticamente, e poeticamente, bisogna seguire non il pensiero (che ha sempre mafiosi e inacclarabili rapporti col senso comune), ma il sottopensiero e il sovrappensiero. Questo è quanto fa con perfetta naturalezza Manganelli. Io sospetto sempre nell’umorista il piacere del paradosso, la consapevolezza di spararle grosse, la voglia di stupire. La malinconia di dover ridere. Manganelli non vuol essere affatto paradossale, o almeno non si cura di esserlo, tranne nei momenti in cui, e non sono neppure tanto frequenti, si dà all’intrattenimento (e pochi gli negheranno rare qualità di “entertainer”).
Quando scrive per sé, ma esattamente devo dire quando scrive per il testo che vuole scriversi, non ha affatto la cognizione del paradosso: si trova semplicemente dall’altra parte di ciò che i bennati lettori del risaputo presumono sia la letteratura o, in termini un tantino più sociologici, la comunicazione letteraria. Cibi cade nel suo diluvio di parole, o impara subito a nuotare o annega miseramente. Chi crede che il narratore delle sue allegorie sia lo scrittore in persona rischia il disorientamento totale. Non voglio mitologizzare, non insinuo che Manganelli è un’incarnazione dell’Inconscio, ma gli credo quando afferma di non essere veramente “autore” di ciò che scrive, quando giudica, un po’ da estraneo, “più odioso” degli altri suoi libri Sconclusione (Rizzoli).
Davanti alla scrittura perviamente automatica di Manganelli, quella dei surrealisti appare un meccanismo adibito a tutt’altre prestazioni. La differenza sostanziale, mi sembra, è che la scrittura di Manganelli non è “desiderante”, non è funzione dell’erotismo, non è destinabile ad alcuna illuminazione. Il suo arbitrio si abbandona a un solo potere, quello dell’ipotesi. Se negli altri libri seguiva il sovrappensiero ipotetico, e quindi assistevamo alla euforia e all’ipertrofia della finzione, qui in Sconclusione si è abbassato al livello del sottopensiero, si è consegnato alla coscienza larvale, subesistenziale, dell’assurdo. Il problema è sempre lo stesso: come si fa a uscire dal copione dell’universo? E questo libro è “più odioso” forse perché offre finalmente la risposta, allegorica e inverificabile: contribuisci pure “al marasma lessicale e onomastico”, il diluvio laverà tutti i segni dopo averli stinti l’uno sull’altro.
Era inevitabile che il carattere diluviale, obliquo, della prosa manganelliana arrivasse a identificarsi con l’archetipo della pioggia. La presenza più consistente, più ontologica e ipersurreale del libro è, appunto, quella invadente e continuamente discontinua dell’acqua verticale. Il narratore, tappato in casa con i suoi “prenati” e “rivivi” e “rimorti”, padre e madri congiunti e mogli “subesistenziali”, sente e ausculta e ipotizza l’essere di questo diluvio che “fascia” la demente vita domestica. Curioso particolare: la pioggia possiede le qualità del fuoco. “Quando la pioggia oscilla su sé stessa, mi pare ancora di intravedere orme di altri edifici, angoli, marciapiedi, resti di alberi folgorati dall’acqua, dalle gocce, dal loro infinito”.
Nel suo intenso sottopensiero il narratore può avocare a sé tutte le contraddizioni e accettarle. L’interminabile fine del mondo sarà “un annacquarsi e innacquarsi dell’acqua, un rincalzarsi dell’acqua con acqua”, e il mondo risolto in palude e verde putrefazione sarà finalmente “tale da non consentire quella distinzione netta e a parer mio volgare tra vivi e morti che è causa di tante ingiustizie e tanti dolori”.
La rutilante irriverenza, abituale nel Manganelli, è diventata più affabile (“a parte le flatulenze, non sono un figlio cattivo”), la cattiveria convive con la pietà, e sempre più godibile è la sua virtuosistica capacità di variazioni nel cosmico e nel re1igioso. Che party mostruosamente affollato, la resurrezione! Sapere che tutti incontreranno tutti “‘pare uno dei più irreparabili inconvenienti della creazione: parola quasi oscena che alludo ai genitali della divinità”. E quel mediocre uovo del sole “non potrà mai nutrire la atavica anemia del cielo”. Anzi: “Può essere che lo stesso sole venga conseguito a surrettiziamente dalla pioggia e si copra di una qualche materia fungosa o melmosa, tutto il suo fuoco, vecchio bastardo, ridotto ad una pasta di cenere morta e tetra, la pietra aperta che rotola per il cielo, un cielaccio tutto pozzanghere e merde di cavalli di Febo”.
Certo, non dobbiamo aspettarci che tutte le invenzioni di questa Sconclusione, che ne è piena, siano della stessa tempra; alcune sono frivole, altre opache. E il nuovo linguaggio basso del Manganelli non resiste alle tentazioni dotte (si sarà notato, nella citazione precedente, l’uso latineggiante di quel “conseguito” che a me suona un pochino stonato). Ma a sconcludere, e a sconclusionare il lettore è perfettamente riuscito. Un libro inverifìcabile da cima a fondo, senza connessioni palesi, senza struttura, voleva essere scritto, ma con garbo e sommessamente. Più che giusto che quel libro abbia scelto proprio lui, il più “tautofonico” e, lo dico con ammirazione, il più rapido recensore di immagini latenti nel copione della nostra lingua.
“la Repubblica”, 13 ottobre 1976; poi [senza il primo capoverso, espunto] in Alfredo Giuliani, Le droghe di Marsiglia, Adelphi, Milano 1977
Per filosofare parodisticamente, e poeticamente, bisogna seguire non il pensiero (che ha sempre mafiosi e inacclarabili rapporti col senso comune), ma il sottopensiero e il sovrappensiero. Questo è quanto fa con perfetta naturalezza Manganelli. Io sospetto sempre nell’umorista il piacere del paradosso, la consapevolezza di spararle grosse, la voglia di stupire. La malinconia di dover ridere. Manganelli non vuol essere affatto paradossale, o almeno non si cura di esserlo, tranne nei momenti in cui, e non sono neppure tanto frequenti, si dà all’intrattenimento (e pochi gli negheranno rare qualità di “entertainer”).
Quando scrive per sé, ma esattamente devo dire quando scrive per il testo che vuole scriversi, non ha affatto la cognizione del paradosso: si trova semplicemente dall’altra parte di ciò che i bennati lettori del risaputo presumono sia la letteratura o, in termini un tantino più sociologici, la comunicazione letteraria. Cibi cade nel suo diluvio di parole, o impara subito a nuotare o annega miseramente. Chi crede che il narratore delle sue allegorie sia lo scrittore in persona rischia il disorientamento totale. Non voglio mitologizzare, non insinuo che Manganelli è un’incarnazione dell’Inconscio, ma gli credo quando afferma di non essere veramente “autore” di ciò che scrive, quando giudica, un po’ da estraneo, “più odioso” degli altri suoi libri Sconclusione (Rizzoli).
Davanti alla scrittura perviamente automatica di Manganelli, quella dei surrealisti appare un meccanismo adibito a tutt’altre prestazioni. La differenza sostanziale, mi sembra, è che la scrittura di Manganelli non è “desiderante”, non è funzione dell’erotismo, non è destinabile ad alcuna illuminazione. Il suo arbitrio si abbandona a un solo potere, quello dell’ipotesi. Se negli altri libri seguiva il sovrappensiero ipotetico, e quindi assistevamo alla euforia e all’ipertrofia della finzione, qui in Sconclusione si è abbassato al livello del sottopensiero, si è consegnato alla coscienza larvale, subesistenziale, dell’assurdo. Il problema è sempre lo stesso: come si fa a uscire dal copione dell’universo? E questo libro è “più odioso” forse perché offre finalmente la risposta, allegorica e inverificabile: contribuisci pure “al marasma lessicale e onomastico”, il diluvio laverà tutti i segni dopo averli stinti l’uno sull’altro.
Era inevitabile che il carattere diluviale, obliquo, della prosa manganelliana arrivasse a identificarsi con l’archetipo della pioggia. La presenza più consistente, più ontologica e ipersurreale del libro è, appunto, quella invadente e continuamente discontinua dell’acqua verticale. Il narratore, tappato in casa con i suoi “prenati” e “rivivi” e “rimorti”, padre e madri congiunti e mogli “subesistenziali”, sente e ausculta e ipotizza l’essere di questo diluvio che “fascia” la demente vita domestica. Curioso particolare: la pioggia possiede le qualità del fuoco. “Quando la pioggia oscilla su sé stessa, mi pare ancora di intravedere orme di altri edifici, angoli, marciapiedi, resti di alberi folgorati dall’acqua, dalle gocce, dal loro infinito”.
Nel suo intenso sottopensiero il narratore può avocare a sé tutte le contraddizioni e accettarle. L’interminabile fine del mondo sarà “un annacquarsi e innacquarsi dell’acqua, un rincalzarsi dell’acqua con acqua”, e il mondo risolto in palude e verde putrefazione sarà finalmente “tale da non consentire quella distinzione netta e a parer mio volgare tra vivi e morti che è causa di tante ingiustizie e tanti dolori”.
La rutilante irriverenza, abituale nel Manganelli, è diventata più affabile (“a parte le flatulenze, non sono un figlio cattivo”), la cattiveria convive con la pietà, e sempre più godibile è la sua virtuosistica capacità di variazioni nel cosmico e nel re1igioso. Che party mostruosamente affollato, la resurrezione! Sapere che tutti incontreranno tutti “‘pare uno dei più irreparabili inconvenienti della creazione: parola quasi oscena che alludo ai genitali della divinità”. E quel mediocre uovo del sole “non potrà mai nutrire la atavica anemia del cielo”. Anzi: “Può essere che lo stesso sole venga conseguito a surrettiziamente dalla pioggia e si copra di una qualche materia fungosa o melmosa, tutto il suo fuoco, vecchio bastardo, ridotto ad una pasta di cenere morta e tetra, la pietra aperta che rotola per il cielo, un cielaccio tutto pozzanghere e merde di cavalli di Febo”.
Certo, non dobbiamo aspettarci che tutte le invenzioni di questa Sconclusione, che ne è piena, siano della stessa tempra; alcune sono frivole, altre opache. E il nuovo linguaggio basso del Manganelli non resiste alle tentazioni dotte (si sarà notato, nella citazione precedente, l’uso latineggiante di quel “conseguito” che a me suona un pochino stonato). Ma a sconcludere, e a sconclusionare il lettore è perfettamente riuscito. Un libro inverifìcabile da cima a fondo, senza connessioni palesi, senza struttura, voleva essere scritto, ma con garbo e sommessamente. Più che giusto che quel libro abbia scelto proprio lui, il più “tautofonico” e, lo dico con ammirazione, il più rapido recensore di immagini latenti nel copione della nostra lingua.
“la Repubblica”, 13 ottobre 1976; poi [senza il primo capoverso, espunto] in Alfredo Giuliani, Le droghe di Marsiglia, Adelphi, Milano 1977