J. Rodolfo Wilcock
L'enigma del pendolo
L'enigma del pendolo
Come un esploratore piuttosto frivolo che si avvicina a una splendida e nota Antartide per piantarvi la bandiera nazionale e subito ritornare, magari raffreddato ma sicuramente infreddolito, al suo tran tran di rotte usate, vorrei accostarmi all’opera di Manganelli, che non è esattamente la persona di Manganelli, per ribadire o ricordare ai partigiani del genio locale che essa è, di tutte le sovrastrutture moderne italiane, la più mostrabile, la più fertile e quindi ricca, la più avanzata tecnologicamente. Delle pagine che compongono quell’opera io non riesco a leggere mai una intera, ma posso apprezzarne a distanza l’originale maestà, anzi maestosità.
Figlio della retorica e della poesia, come direbbe l’io del loro autore sempre narrante, egli dovrebbe sedere tra noi nel posto unico che occupa Samuel Beckett in Francia, mutatis mutandis. Né gli si confanno i premi di mangime, soltanto i più corposi che purtroppo, per mancata decorrenza, ancora non ha avuto. È certamente un classico vivente, anche se a me non piace; tra l’altro, chi se non lui manterrebbe in acrobatica agilità la lingua italiana, costretta a quanto pare a scadere in journalese, come chiamò Henry James lo scarso gergo giornalistico?
Figlio della retorica e della poesia: si ha l’impressione infatti che questi siano i genitori di cui tanto egli parla nei suoi “arabeschi lavorati nella pasta molle del nulla”. Del padre retorico non gli son rimasti quasi che i vizi e i tic, ma della madre, non meno del padre vilipesa, ha ereditato copiosamente le grazie. Per me Manganelli scrittore è unicamente un poeta: possiede la qualità, l’estro di immaginazione che da cent’anni e più nessun altro poeta italiano ha nemmeno lontanamente posseduto, e difatti nella sua primogenita Hilarotragoedia è contenuto un racconto così spirituale e metafisico che per riconoscervi la radice italiana, il precedente italiano, bisogna scendere nel tempo a secoli quanto mai lontani.
Quel che fa un classico vivente di questo autore è quella capacità – e altrettanto ne farebbe forse di chiunque la possedesse in tal grado – di abbandonarsi a se stesso in umiltà totale per estrarre, come dice lui, dalle incarognite allucinazioni, dagli incubi ritmati da ululati notturni: le immagini nella loro purezza da sogno. Che è quello che poteva fare Kafka, il quale però quei fiori dell’incubo descriveva con mano più sicura.
Un poeta è e sarebbe dovuto apparire. Un raccoglitore di immagini assortite, che le sa stupende ma sa pure di non poter disporle che nella loro successiva nudità. E con il bisogno che ne aveva, questa lingua, rimasta senza poeti per quanto ne dicano. Ma le cose sono andate così, e come tutti gli scrittori Manganelli ha scritto quello che ha scritto. Forse, anzi da un certo punto di vista sicuramente, era l’unico modo in cui poteva farlo; e diventa subito ridicolo, non appena cala la giornata, criticare i fatti già accaduti, come se qualcuno o qualcosa, nonostante l’opinione di Pier Damiani, potessero cambiarli. E penso che tra cent’anni, quando di questa lingua il Manganelli sarà un classico, presumo, morto, queste mie righe, se mai considerate, verranno considerate come una rarità del luogo comune. Uno che si augurava che qualcuno avesse usato in altro modo la propria capacità di agire.
Queste immagini che mi colpiscono, tramescolate nel ripido lavorio verbale, si susseguono nelle pagine di Sconclusione fin dall’inizio: “rimisi mio padre nel cassetto”, “stritolarlo, farmene colare il sangue di pipistrello per le mani”,“ero morto un minor numero di volte”, “mi accadeva di percuotere selvaggiamente mio padre per ore, con cinghie, bastoni, grossi chiodi, vetri rotti, specialmente sulle gengive e sui genitali, che egli ha grandissimi, e che ama dipingersi in modo esibizionistico”, “l’aveva uccisa durante la ricerca di un orgasmo specialmente ghiotto e arabescato”, “leggeva grandi orari ferroviari del primo Novecento, una curiosa miscela di Ariosto e Tasso”, “un almanacco telefonico, sul quale gli abbonati sono disposti secondo gli alberi genealogici”, e così via fino alla seconda madre o commadre, che gli ospiti spesso scambiavano “per una grossa meringa scagliata contro la parete”. Siamo alla pagina 14, e il libro ne ha 143, evidentemente tutte da leggere con profitto della immaginazione.
L’altro importante scrittore italiano vivente, Landolfi, è solito fare stampare in bianco i suoi risvolti di copertina. Attento alla stessa precauzione, non volendo forse imitare Landolfi, Manganelli preferisce scriversi da sé tali risvolti, pur badando a non dire in essi niente, tranne l’espressione della propria altezzosa modestia. Ma non è per modestia, bensì per acuta osservazione che egli annota nel testo: “l’analfabetismo, che a mio modo professo, ma in una guisa indiretta, giacché non scrivo mai direttamente ad alcuno o su di alcuno, ritenendo dunque che quel che si scrive sia non tanto inutile, quanto un vero e proprio escremento, che, per solito, sebbene l’uso sia diverso in altri contesti culturali, per solito, dicevo, noi non dedichiamo ad alcuno”. Questa, ripeto, non è che una delle tante prove della sagacia psicologica dell’autore – condizione in qualche modo implicita nella qualifica di poeta – e se la metafora a qualche lettore può sembrare incivile, egli può mutare “escremento” in “secrezione” e il concetto rimarrà su per giù lo stesso. Così è, noi scrittori non dedichiamo le nostre secrezioni o ciò che sia a nessuno, ed è proprio il fato di averle secrete naturalmente che dà ad esse, appunto, naturalezza. Talché esse esprimono la nostra natura. Anche se nessuno le vuole. Punto e basta.
In copertina del libro è ritratto un orologio come quelli che si usavano agli inizi del secolo nelle case modeste americane, con sul pendolo però incisa una lettera enigmatica. Questi orologi portavano difatti sul pendolo, bellamente arabescate, le lettere A ed R (Avance-Retard), per indicare da quale parte si dovevano svitare o avvitare certi contrappesi quando l’orologio andava avanti o ritardava. Ma sul pendolo di Manganelli spicca un’unica A, centrale: a significare, forse, Avanguardia, Astieniti, Amore, Acapulco: al lettore di decidere. Forse è Amelia, o altro nome simile di donna; forse è Arte.
“Il Tempo”, 25 settembre 1976
Figlio della retorica e della poesia, come direbbe l’io del loro autore sempre narrante, egli dovrebbe sedere tra noi nel posto unico che occupa Samuel Beckett in Francia, mutatis mutandis. Né gli si confanno i premi di mangime, soltanto i più corposi che purtroppo, per mancata decorrenza, ancora non ha avuto. È certamente un classico vivente, anche se a me non piace; tra l’altro, chi se non lui manterrebbe in acrobatica agilità la lingua italiana, costretta a quanto pare a scadere in journalese, come chiamò Henry James lo scarso gergo giornalistico?
Figlio della retorica e della poesia: si ha l’impressione infatti che questi siano i genitori di cui tanto egli parla nei suoi “arabeschi lavorati nella pasta molle del nulla”. Del padre retorico non gli son rimasti quasi che i vizi e i tic, ma della madre, non meno del padre vilipesa, ha ereditato copiosamente le grazie. Per me Manganelli scrittore è unicamente un poeta: possiede la qualità, l’estro di immaginazione che da cent’anni e più nessun altro poeta italiano ha nemmeno lontanamente posseduto, e difatti nella sua primogenita Hilarotragoedia è contenuto un racconto così spirituale e metafisico che per riconoscervi la radice italiana, il precedente italiano, bisogna scendere nel tempo a secoli quanto mai lontani.
Quel che fa un classico vivente di questo autore è quella capacità – e altrettanto ne farebbe forse di chiunque la possedesse in tal grado – di abbandonarsi a se stesso in umiltà totale per estrarre, come dice lui, dalle incarognite allucinazioni, dagli incubi ritmati da ululati notturni: le immagini nella loro purezza da sogno. Che è quello che poteva fare Kafka, il quale però quei fiori dell’incubo descriveva con mano più sicura.
Un poeta è e sarebbe dovuto apparire. Un raccoglitore di immagini assortite, che le sa stupende ma sa pure di non poter disporle che nella loro successiva nudità. E con il bisogno che ne aveva, questa lingua, rimasta senza poeti per quanto ne dicano. Ma le cose sono andate così, e come tutti gli scrittori Manganelli ha scritto quello che ha scritto. Forse, anzi da un certo punto di vista sicuramente, era l’unico modo in cui poteva farlo; e diventa subito ridicolo, non appena cala la giornata, criticare i fatti già accaduti, come se qualcuno o qualcosa, nonostante l’opinione di Pier Damiani, potessero cambiarli. E penso che tra cent’anni, quando di questa lingua il Manganelli sarà un classico, presumo, morto, queste mie righe, se mai considerate, verranno considerate come una rarità del luogo comune. Uno che si augurava che qualcuno avesse usato in altro modo la propria capacità di agire.
Queste immagini che mi colpiscono, tramescolate nel ripido lavorio verbale, si susseguono nelle pagine di Sconclusione fin dall’inizio: “rimisi mio padre nel cassetto”, “stritolarlo, farmene colare il sangue di pipistrello per le mani”,“ero morto un minor numero di volte”, “mi accadeva di percuotere selvaggiamente mio padre per ore, con cinghie, bastoni, grossi chiodi, vetri rotti, specialmente sulle gengive e sui genitali, che egli ha grandissimi, e che ama dipingersi in modo esibizionistico”, “l’aveva uccisa durante la ricerca di un orgasmo specialmente ghiotto e arabescato”, “leggeva grandi orari ferroviari del primo Novecento, una curiosa miscela di Ariosto e Tasso”, “un almanacco telefonico, sul quale gli abbonati sono disposti secondo gli alberi genealogici”, e così via fino alla seconda madre o commadre, che gli ospiti spesso scambiavano “per una grossa meringa scagliata contro la parete”. Siamo alla pagina 14, e il libro ne ha 143, evidentemente tutte da leggere con profitto della immaginazione.
L’altro importante scrittore italiano vivente, Landolfi, è solito fare stampare in bianco i suoi risvolti di copertina. Attento alla stessa precauzione, non volendo forse imitare Landolfi, Manganelli preferisce scriversi da sé tali risvolti, pur badando a non dire in essi niente, tranne l’espressione della propria altezzosa modestia. Ma non è per modestia, bensì per acuta osservazione che egli annota nel testo: “l’analfabetismo, che a mio modo professo, ma in una guisa indiretta, giacché non scrivo mai direttamente ad alcuno o su di alcuno, ritenendo dunque che quel che si scrive sia non tanto inutile, quanto un vero e proprio escremento, che, per solito, sebbene l’uso sia diverso in altri contesti culturali, per solito, dicevo, noi non dedichiamo ad alcuno”. Questa, ripeto, non è che una delle tante prove della sagacia psicologica dell’autore – condizione in qualche modo implicita nella qualifica di poeta – e se la metafora a qualche lettore può sembrare incivile, egli può mutare “escremento” in “secrezione” e il concetto rimarrà su per giù lo stesso. Così è, noi scrittori non dedichiamo le nostre secrezioni o ciò che sia a nessuno, ed è proprio il fato di averle secrete naturalmente che dà ad esse, appunto, naturalezza. Talché esse esprimono la nostra natura. Anche se nessuno le vuole. Punto e basta.
In copertina del libro è ritratto un orologio come quelli che si usavano agli inizi del secolo nelle case modeste americane, con sul pendolo però incisa una lettera enigmatica. Questi orologi portavano difatti sul pendolo, bellamente arabescate, le lettere A ed R (Avance-Retard), per indicare da quale parte si dovevano svitare o avvitare certi contrappesi quando l’orologio andava avanti o ritardava. Ma sul pendolo di Manganelli spicca un’unica A, centrale: a significare, forse, Avanguardia, Astieniti, Amore, Acapulco: al lettore di decidere. Forse è Amelia, o altro nome simile di donna; forse è Arte.
“Il Tempo”, 25 settembre 1976