Paolo Milano
Dizionario filosofico e note di costume
Dizionario filosofico e note di costume
Come accosta i suoi modelli, o come si documenta, David Levine, forse il massimo, certo il più noto, caricaturista del nostro tempo? Pare che, una buona metà dei suoi soggetti, Levine non li abbia mai visti di persona, quindi li desuma (li indovini, li reinventi) da fotografie, filmati, ritratti o disegni altrui. Comunque, ogni caricatura di Levine è un “ritratto critico”, cioè un rispecchiamento – attraverso corpo, vesti e qualche accessorio allegorico – dei tratti morali del personaggio. Quando il motivo è conciso, si ha una caricatura-epigramma; altre volte, quando la materia è più ricca, il discorso grafico si amplia in un piccolo saggio, che chi guarda è tentato di tradurre, cioè svolgere minutamente, in parole. Questo ha fatto Giorgio Manganelli, del Paolo VI di David Levine, in tre pagine che cominciano così: “Ho davanti a me il ritratto di Paolo VI papa: è una immagine aspra e insinuante, drammatica e scostante. Paolo VI appare in una figura esplicita e simbolica, come la ricostruzione filologica e fantastica di una imponente ed enigmatica rovina. È una caricatura, ma una caricatura senza riso”. Mani e occhi, mantella e pantofole, labbra senza carne e gigantesche orecchie, ogni segno dell’effigie papale è da Manganelli fraseggiato e interpretato con un’acutezza che non si lascia riassumere. E questa è la chiusa: “Morbido e severo, perplesso e impervio, si disegna il volto del Monarca assoluto, preparato dai maquillages dell’età, della cronaca, della storia, dell’eternità, custodito nel suo periglioso equilibrio dalle enigmatiche milizie del silenzio e dell’ angoscia”.
Il nuovo libro di Manganelli, (quaranta “pezzi” brevi, o anche brevissimi come quello che si è detto), è di un Manganelli diverso, o addirittura nuovo. Dopo un decennio di sovrana reclusione, Manganelli è uscito dalla sua sontuosa casamatta e circola fra noi. Il tanatògrafo e tanatòsofo di Hilarotragoedia (1964), di Nuovo commento (1970), di Agli dèi ulteriori (1972), il metafisico ragioniere della fine onnipresente, il barocco glossatore del nostro capillare trapasso, ha piantato le tende nella società contemporanea per gettare un occhio sui suoi costumi, ci parla di calcio e di caccia, delle nevrosi da traffico e delle vacanze-ponte, del Duomo di Milano che barcolla e di un romanzo che non ha letto (e film che non ha visto) intitolati Il padrino. Ma questa sua raccolta si chiama, con qualche mistero, Lunario dell’orfano sannita, titolo che l’autore stesso, in sede di “risvolto”, ci illustra con una parabola bizzarra e puntualmente mortuaria.
Manganelli vi favoleggia di quel lontano giorno in cui “un romano trionfatore e villoso sgozzò l’ultimo dei sanniti: un omaccione odoroso di capra, illetterato, assistito da una teologia ‘povera’, buono ad addomesticare le vipere”. Ma la soluzione finale della “questione sannita” sprigionò “per l’Italia un esercito di fantasmi”. Gli antichi romani, “costruttori di archi di trionfo e macchinatori di stragi storicamente impeccabili, si trovarono addosso”, ogni notte, quegli scomparsi sanniti, che parlottavano ai piedi dei loro letti. Col tempo, “codesti morticini di provincia” si impiantarono nelle viscere dei romani, segnando così la vittoria di contagiarli di sé. Ma questi insopprimibili sanniti, (“acquattati, ridanciani, affamati, orfani”), recano in tutti i loro rapporti, fra sé e con gli ospiti romani, “il marchio possessivo della morte”.
Se i “romani” della parabola sono la nostra società, si direbbe che i “sanniti” sono i cadaveri nella sua stiva, ma anche una plebe che rissa e giudica, e soprattutto una congrega di ombre che insinua, negli altri, fermenti di morte. Tutto questo, si intende, nient’affatto esplicito come qui suona, bensì sfumato e allusivo. C’è poi che la similitudine di fondo cambia termini almeno altre due volte. Il pezzo in cui Manganelli descrive il suo primissimo e recente viaggio a Parigi, (dunque in età insolitamente matura), si intitola L’orfano sannita scopre Parigi, (“sannita”, per un verso molto sottile, 1’autore si ritiene quindi egli stesso). Infine, nella chiusa del “risvolto”, 1’Orfano sannita è dichiarato committente e destinatario di tutto il libro: col che Manganelli celebra la gesta finale della propria “bravura funambolica”.
Queste riflessioni intorno al titolo e al suo fondo solitamente funereo, non ci hanno fatto dimenticare che tutto il libro consiste di “note di costume”, destinate a un quotidiano o un settimanale. Manganelli giornalista, insomma, epperò deciso a non cedere un pollice del suo rigore. La prima sezione, la più ampia, si può dire di “ritratti”. Ce n’è di personaggi o tipi, come il Preside, 1’Intellettuale progressista, gli eroi di Rischiatutto; di luoghi, come Torino, o le Città estive, o 1’aeroporto di Fiumicino; e perfino di libri eccelsi ma fuorivia, come il Corano.
La seconda sezione è di “varietà”: l’avventura di un Trasloco, il controllo dei Telefoni, il futuro della Luna, eccetera, ma anche una micidiale apologia del professor Armando Plebe e le sue “otto tesi” sulla cultura di destra, nonché un paio di liberissime recensioni. La terza parte, assai breve, è di prese di posizione: l’autore, ad esempio, muove Obiezioni al divorzio, o allinea Alcune ragioni per non firmare gli appelli.
Si diceva della sostanza metafisica contro l’aspetto giornalistico. In verità, questo Lunario non si tiene né all’una cosa né all’altra: è il libro di un ironista e di un moralista, risoluto ad avvicinarsi, come suggerisce il “risvolto”, “ai grandi ‘moralisti’ classici”. A proposito di Manganelli, che fra molte altre cose è anglista, si pensa in primissimo luogo, naturalmente, a Swift. Il Lunario, appunto, abbonda di swiftiane “modeste proposte”: massima, cioè di più gustosa acredine, quella intitolata Suicidio di Stato. Un ipotetico professore svedese si propone di “istituire cliniche destinate ad agevolare, con razionata saggezza, la volontà di morire dei candidati suicidi”. Il suicidio che, “lasciato all’iniziativa privata”, è stato finora “un misero affare”, andrebbe messo “nelle mani asettiche e stoicamente efficaci del Welfare State”.
Tra swiftiano e leopardiano è invece il Dialoghetto tra un Viandante e un Professore. Il secondo dà consigli illuminatamente cinici al primo, padre di un ragazzo “che ama lo studio e i libri”, in un paese che conosciamo, dove la scuola è in sfacelo. Un’altra variazione sul tema della scuola, e dello Stato e delle prove del sapere, è il brevissimo pezzo Esami, (io lo preferisco a tutti), nel quale una studentessa di letteratura inglese riferisce compitamente all’esaminatore Manganelli che “William Blake, a otto anni, vedeva Dio”.
Nelle ultime righe di Esami, si accenna a “un momento, pochi anni fa”, in cui “uno splendido moto d’odio aveva scosso a fondo” le aule della Scuola. Un richiamo di questo tenore invita a chiedersi: in forza di quale sua idea del vivere Manganelli è moralista? Nei suoi modelli come in lui, il pessimismo sullo stato dell’uomo è immemoriale e congenito; Manganelli, tuttavia, non appartiene alla pur illustre famiglia dei moralisti amici dell’autorità e ligi alla conservazione. “Bersaglio preferito” dei suoi attacchi, a suo stesso dire, sono “le illusioni, i trucchi, le violenze, le assurdità e le ridicolaggini del vivere associato”. La stessa idea di società lo mette in sospetto, e la misantropia non gli è aliena. Ma egli non è un fautore dell’Ordine, neanche in nome della tranquillità o del bisogno e, se fra chi si oppone dovesse scegliere, preferirebbe gli eversori.
Azzardo, per chiudere, un’ipotesi sull’attuale passaggio da Manganelli alla cronaca di costume. Non tanto lui è cambiato quanto la natura dei nostri fatti del giorno: la cui enormità, efferatezza, vuotaggine od insania, reggono ormai il confronto con le più tenebrose figurazioni di qualsiasi mente metafisica, china a descrivere il nostro tempo.
“L’Espresso”, 16 settembre 1973
Il nuovo libro di Manganelli, (quaranta “pezzi” brevi, o anche brevissimi come quello che si è detto), è di un Manganelli diverso, o addirittura nuovo. Dopo un decennio di sovrana reclusione, Manganelli è uscito dalla sua sontuosa casamatta e circola fra noi. Il tanatògrafo e tanatòsofo di Hilarotragoedia (1964), di Nuovo commento (1970), di Agli dèi ulteriori (1972), il metafisico ragioniere della fine onnipresente, il barocco glossatore del nostro capillare trapasso, ha piantato le tende nella società contemporanea per gettare un occhio sui suoi costumi, ci parla di calcio e di caccia, delle nevrosi da traffico e delle vacanze-ponte, del Duomo di Milano che barcolla e di un romanzo che non ha letto (e film che non ha visto) intitolati Il padrino. Ma questa sua raccolta si chiama, con qualche mistero, Lunario dell’orfano sannita, titolo che l’autore stesso, in sede di “risvolto”, ci illustra con una parabola bizzarra e puntualmente mortuaria.
Manganelli vi favoleggia di quel lontano giorno in cui “un romano trionfatore e villoso sgozzò l’ultimo dei sanniti: un omaccione odoroso di capra, illetterato, assistito da una teologia ‘povera’, buono ad addomesticare le vipere”. Ma la soluzione finale della “questione sannita” sprigionò “per l’Italia un esercito di fantasmi”. Gli antichi romani, “costruttori di archi di trionfo e macchinatori di stragi storicamente impeccabili, si trovarono addosso”, ogni notte, quegli scomparsi sanniti, che parlottavano ai piedi dei loro letti. Col tempo, “codesti morticini di provincia” si impiantarono nelle viscere dei romani, segnando così la vittoria di contagiarli di sé. Ma questi insopprimibili sanniti, (“acquattati, ridanciani, affamati, orfani”), recano in tutti i loro rapporti, fra sé e con gli ospiti romani, “il marchio possessivo della morte”.
Se i “romani” della parabola sono la nostra società, si direbbe che i “sanniti” sono i cadaveri nella sua stiva, ma anche una plebe che rissa e giudica, e soprattutto una congrega di ombre che insinua, negli altri, fermenti di morte. Tutto questo, si intende, nient’affatto esplicito come qui suona, bensì sfumato e allusivo. C’è poi che la similitudine di fondo cambia termini almeno altre due volte. Il pezzo in cui Manganelli descrive il suo primissimo e recente viaggio a Parigi, (dunque in età insolitamente matura), si intitola L’orfano sannita scopre Parigi, (“sannita”, per un verso molto sottile, 1’autore si ritiene quindi egli stesso). Infine, nella chiusa del “risvolto”, 1’Orfano sannita è dichiarato committente e destinatario di tutto il libro: col che Manganelli celebra la gesta finale della propria “bravura funambolica”.
Queste riflessioni intorno al titolo e al suo fondo solitamente funereo, non ci hanno fatto dimenticare che tutto il libro consiste di “note di costume”, destinate a un quotidiano o un settimanale. Manganelli giornalista, insomma, epperò deciso a non cedere un pollice del suo rigore. La prima sezione, la più ampia, si può dire di “ritratti”. Ce n’è di personaggi o tipi, come il Preside, 1’Intellettuale progressista, gli eroi di Rischiatutto; di luoghi, come Torino, o le Città estive, o 1’aeroporto di Fiumicino; e perfino di libri eccelsi ma fuorivia, come il Corano.
La seconda sezione è di “varietà”: l’avventura di un Trasloco, il controllo dei Telefoni, il futuro della Luna, eccetera, ma anche una micidiale apologia del professor Armando Plebe e le sue “otto tesi” sulla cultura di destra, nonché un paio di liberissime recensioni. La terza parte, assai breve, è di prese di posizione: l’autore, ad esempio, muove Obiezioni al divorzio, o allinea Alcune ragioni per non firmare gli appelli.
Si diceva della sostanza metafisica contro l’aspetto giornalistico. In verità, questo Lunario non si tiene né all’una cosa né all’altra: è il libro di un ironista e di un moralista, risoluto ad avvicinarsi, come suggerisce il “risvolto”, “ai grandi ‘moralisti’ classici”. A proposito di Manganelli, che fra molte altre cose è anglista, si pensa in primissimo luogo, naturalmente, a Swift. Il Lunario, appunto, abbonda di swiftiane “modeste proposte”: massima, cioè di più gustosa acredine, quella intitolata Suicidio di Stato. Un ipotetico professore svedese si propone di “istituire cliniche destinate ad agevolare, con razionata saggezza, la volontà di morire dei candidati suicidi”. Il suicidio che, “lasciato all’iniziativa privata”, è stato finora “un misero affare”, andrebbe messo “nelle mani asettiche e stoicamente efficaci del Welfare State”.
Tra swiftiano e leopardiano è invece il Dialoghetto tra un Viandante e un Professore. Il secondo dà consigli illuminatamente cinici al primo, padre di un ragazzo “che ama lo studio e i libri”, in un paese che conosciamo, dove la scuola è in sfacelo. Un’altra variazione sul tema della scuola, e dello Stato e delle prove del sapere, è il brevissimo pezzo Esami, (io lo preferisco a tutti), nel quale una studentessa di letteratura inglese riferisce compitamente all’esaminatore Manganelli che “William Blake, a otto anni, vedeva Dio”.
Nelle ultime righe di Esami, si accenna a “un momento, pochi anni fa”, in cui “uno splendido moto d’odio aveva scosso a fondo” le aule della Scuola. Un richiamo di questo tenore invita a chiedersi: in forza di quale sua idea del vivere Manganelli è moralista? Nei suoi modelli come in lui, il pessimismo sullo stato dell’uomo è immemoriale e congenito; Manganelli, tuttavia, non appartiene alla pur illustre famiglia dei moralisti amici dell’autorità e ligi alla conservazione. “Bersaglio preferito” dei suoi attacchi, a suo stesso dire, sono “le illusioni, i trucchi, le violenze, le assurdità e le ridicolaggini del vivere associato”. La stessa idea di società lo mette in sospetto, e la misantropia non gli è aliena. Ma egli non è un fautore dell’Ordine, neanche in nome della tranquillità o del bisogno e, se fra chi si oppone dovesse scegliere, preferirebbe gli eversori.
Azzardo, per chiudere, un’ipotesi sull’attuale passaggio da Manganelli alla cronaca di costume. Non tanto lui è cambiato quanto la natura dei nostri fatti del giorno: la cui enormità, efferatezza, vuotaggine od insania, reggono ormai il confronto con le più tenebrose figurazioni di qualsiasi mente metafisica, china a descrivere il nostro tempo.
“L’Espresso”, 16 settembre 1973