Riga n.
Alberto Arbasino
Paolo Milano
Dizionario filosofico e note di costume

Come accosta i suoi modelli, o come si documenta, David Levine, forse il massimo, certo il più noto, caricaturista del nostro tempo? Pa­re che, una buona metà dei suoi sog­getti, Levine non li abbia mai visti di persona, quindi li desuma (li in­dovini, li reinventi) da fotografie, filmati, ritratti o disegni altrui. Co­munque, ogni caricatura di Levine è un “ritratto critico”, cioè un rispec­chiamento – attraverso corpo, ve­sti e qualche accessorio allegorico – dei tratti morali del personaggio. Quando il motivo è conciso, si ha una caricatura-epigramma; altre vol­te, quando la materia è più ricca, il discorso grafico si amplia in un pic­colo saggio, che chi guarda è tenta­to di tradurre, cioè svolgere minu­tamente, in parole. Questo ha fatto Giorgio Manganelli, del Paolo VI di David Levine, in tre pagine che cominciano così: “Ho davanti a me il ritratto di Paolo VI papa: è una immagine aspra e insinuante, drammatica e scostante. Paolo VI appare in una fi­gura esplicita e simbolica, come la ricostruzione filologica e fantastica di una imponente ed enigmatica ro­vina. È una caricatura, ma una ca­ricatura senza riso”. Mani e occhi, mantella e pantofole, labbra senza carne e gigantesche orecchie, ogni segno dell’effigie papale è da Man­ganelli fraseggiato e interpretato con un’acutezza che non si lascia riassumere. E questa è la chiusa: “Morbido e severo, perplesso e impervio, si disegna il volto del Mo­narca assoluto, preparato dai ma­quillages dell’età, della cronaca, del­la storia, dell’eternità, custodito nel suo periglioso equilibrio dalle enig­matiche milizie del silenzio e dell’ angoscia”.

Il nuovo libro di Manganelli, (qua­ranta “pezzi” brevi, o anche brevis­simi come quello che si è detto), è di un Manganelli diverso, o addirit­tura nuovo. Dopo un decennio di so­vrana reclusione, Manganelli è usci­to dalla sua sontuosa casamatta e circola fra noi. Il tanatògra­fo e tanatòsofo di Hilarotragoedia (1964), di Nuovo commento (1970), di Agli dèi ulteriori (1972), il metafisico ragioniere della fine onnipresente, il barocco glossatore del nostro capillare trapasso, ha pianta­to le tende nella società contempo­ranea per gettare un occhio sui suoi costumi, ci parla di calcio e di cac­cia, delle nevrosi da traffico e delle vacanze-ponte, del Duomo di Milano che barcolla e di un romanzo che non ha letto (e film che non ha vi­sto) intitolati Il padrino. Ma que­sta sua raccolta si chiama, con qual­che mistero, Lunario dell’orfano sannita, titolo che l’autore stesso, in sede di “risvolto”, ci illustra con una parabola bizzarra e puntual­mente mortuaria.

Manganelli vi favoleggia di quel lontano giorno in cui “un romano trionfatore e villoso sgozzò l’ultimo dei sanniti: un omaccione odoroso di capra, illetterato, assistito da una teologia ‘povera’, buono ad addo­mesticare le vipere”. Ma la soluzio­ne finale della “questione sannita” sprigionò “per l’Italia un esercito di fantasmi”. Gli antichi romani, “costruttori di archi di trionfo e macchinatori di stragi storicamente impeccabili, si trovarono addosso”, ogni notte, quegli scomparsi sanniti, che parlottavano ai piedi dei loro letti. Col tempo, “codesti mortici­ni di provincia” si impiantarono nelle viscere dei romani, segnando così la vittoria di contagiarli di sé. Ma questi insopprimibili sanniti, (“acquattati, ridanciani, affamati, orfani”), recano in tutti i loro rap­porti, fra sé e con gli ospiti romani, “il marchio possessivo della morte”.

Se i “romani” della parabola sono la nostra società, si direbbe che i “sanniti” sono i cadaveri nella sua stiva, ma anche una plebe che rissa e giudica, e soprattutto una congre­ga di ombre che insinua, negli altri, fermenti di morte. Tutto questo, si intende, nient’affatto esplicito come qui suona, bensì sfumato e allusivo. C’è poi che la similitudine di fondo cambia termini almeno altre due volte. Il pezzo in cui Manganelli de­scrive il suo primissimo e recente viaggio a Parigi, (dunque in età in­solitamente matura), si intitola L’orfano sannita scopre Parigi, (“sannita”, per un verso molto sottile, 1’autore si ritiene quindi egli stesso). Infine, nella chiusa del “risvolto”, 1’Orfano sannita è dichiarato committente e destinatario di tutto il libro: col che Manganelli celebra la gesta finale della propria “bravura funambolica”.

Queste riflessioni intorno al titolo e al suo fondo solitamente funereo, non ci hanno fatto dimenticare che tutto il libro consiste di “note di costume”, destinate a un quotidiano o un settimanale. Manganelli gior­nalista, insomma, epperò deciso a non cedere un pollice del suo rigo­re. La prima sezione, la più ampia, si può dire di “ritratti”. Ce n’è di per­sonaggi o tipi, come il Preside, 1’Intellettuale progressista, gli eroi di Rischiatutto; di luoghi, come Torino, o le Città estive, o 1’aeroporto di Fiumicino; e perfino di libri eccelsi ma fuorivia, come il Corano.

La seconda sezione è di “varietà”: l’avventura di un Trasloco, il con­trollo dei Telefoni, il futuro della Luna, eccetera, ma anche una mi­cidiale apologia del professor Ar­mando Plebe e le sue “otto tesi” sulla cultura di destra, nonché un paio di liberissime recensioni. La terza parte, assai breve, è di prese di po­sizione: l’autore, ad esempio, muove Obiezioni al divorzio, o allinea Al­cune ragioni per non firmare gli appelli.

Si diceva della sostanza metafisica contro l’aspetto giornalistico. In verità, questo Lunario non si tiene né all’una cosa né all’altra: è il libro di un ironista e di un moralista, ri­soluto ad avvicinarsi, come suggeri­sce il “risvolto”, “ai grandi ‘mora­listi’ classici”. A proposito di Man­ganelli, che fra molte altre cose è an­glista, si pensa in primissimo luogo, naturalmente, a Swift. Il Lunario, appunto, abbonda di swiftiane “mo­deste proposte”: massima, cioè di più gustosa acredine, quella intitola­ta Suicidio di Stato. Un ipotetico professore svedese si propone di “istituire cliniche destinate ad age­volare, con razionata saggezza, la vo­lontà di morire dei candidati suici­di”. Il suicidio che, “lasciato all’iniziativa privata”, è stato finora “un misero affare”, andrebbe mes­so “nelle mani asettiche e stoicamente efficaci del Welfare State”.

Tra swiftiano e leopardiano è in­vece il Dialoghetto tra un Viandan­te e un Professore. Il secondo dà consigli illuminatamente cinici al primo, padre di un ragazzo “che ama lo studio e i libri”, in un paese che conosciamo, dove la scuola è in sfacelo. Un’altra variazione sul te­ma della scuola, e dello Stato e del­le prove del sapere, è il brevissimo pezzo Esami, (io lo preferisco a tutti), nel quale una studentessa di letteratura inglese riferisce compi­tamente all’esaminatore Manganelli che “William Blake, a otto anni, vedeva Dio”.

Nelle ultime righe di Esami, si accenna a “un momento, pochi an­ni fa”, in cui “uno splendido moto d’odio aveva scosso a fondo” le au­le della Scuola. Un richiamo di que­sto tenore invita a chiedersi: in for­za di quale sua idea del vivere Man­ganelli è moralista? Nei suoi model­li come in lui, il pessimismo sullo stato dell’uomo è immemoriale e congenito; Manganelli, tuttavia, non appartiene alla pur illustre famiglia dei moralisti amici dell’autorità e ligi alla conservazione. “Bersaglio preferito” dei suoi attacchi, a suo stesso dire, sono “le illusioni, i truc­chi, le violenze, le assurdità e le ridi­colaggini del vivere associato”. La stessa idea di società lo mette in so­spetto, e la misantropia non gli è aliena. Ma egli non è un fautore dell’Ordine, neanche in nome della tran­quillità o del bisogno e, se fra chi si oppone dovesse scegliere, preferirebbe gli eversori.

Azzardo, per chiudere, un’ipotesi sull’attuale passaggio da Manganelli alla cronaca di costume. Non tanto lui è cambiato quanto la natura dei nostri fatti del giorno: la cui enor­mità, efferatezza, vuotaggine od in­sania, reggono ormai il confronto con le più tenebrose figurazioni di qualsiasi mente metafisica, china a descrivere il nostro tempo.
 
 
“L’Espresso”, 16 settembre 1973
 
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