Alfredo Giuliani
Nuovo commento di Manganelli
Nuovo commento di Manganelli
Dopo le prime pagine dell’Hilarotragoedia, capziosa autobiografia in forma di trattatello blasfemo, s’incontra quel personaggio “angosciastico”, “gastronomo dell’universale decesso” a cui si “dispiega ghiotta estensione di leccornie disperative”, nel quale non è difficile ravvisare il ritratto per procura dell’autore. Ma già il dire personaggio è improprio: poiché Manganelli non ha il gusto della narrazione se non allegorica, e i suoi non sono personaggi ma ipotesi di omunci, e le sue storie istruttivi esempi di una dottrina mentita, e il suo procedimento compositivo non è che una mostruosa iperipotesi concrescente su se medesima. Pure, il riconoscerlo in quel ritratto ci pone in grado di cogliere l’espressione saturnina, pungentemente umoresca, di travedere l’agile e demonica badialità della sua pingue fantasia, con tutto quel prestigioso proliferare di infere e astrologiche creature che gli si muovono intorno tra docili e ammiccanti. Siamo, se abbiamo capito bene, di fronte a un Faust posticcio, esilarato del proprio immaginario baratto con la Storia: a questa egli ha rifilato i toni delle Tragedie. Complete dell’umanità, e in cambio ne ha ottenuto l’uso perpetuo e devoto di un solo volumetto, Le Chiavi della Retorica per Aprire Infiniti Mondi Cerimoniali.
Questo è il senso definitivo della Letteratura come menzogna. La letteratura ci fa beatamente vili: negandoci l’impatto con la tragedia ci persuade a restare nell’allegoria. Un codardo metodico edonismo ci avventura in questa lusinghevole regione del mondo dove il destino, benché furente e armato di tutte le sue prerogative burocratiche, non può nulla, perché lì come per magia ogni suo segno ordine e complotto vengono sventati e vanificati in una girandola di figure retoriche; lì perfino la morte non è che un tropo; e per il nostro scorpionide autore l’insostituibile, la prediletta tra tutte le figure.
Che la morte sia l’unica realtà razionale, questo il topesco cerimoniere del linguaggio l’ha sempre sospettato, ma si tratta di una verità irrisoria, goffamente ingombrante e intasata nel proprio traffico predicativo. Essendo il razionale altrettanto arbitrario del suo opposto, e il Tutto e il Nulla ugualmente fantasmatici e godibili, strazianti e futili, rimescolarli e sgomentarli nell’irreale conseguenza delle parole – omicide indifferenti del senso comune – è impresa per eccellenza eroicomica: pensieri laterali e deretani prenderanno il luogo del pensiero dialetticamente diretto verso l’oltre, infinti sentimenti astatutamente regressivi e volatili si sostituiranno alle tiranniche espansioni e deflazioni dei sentimenti vissuti; una letteratura nullificante e insaporita d’insania reciterà la farsa di se stessa, ultima dea impura e squisitamente truccata, vezzosamente oscena, e giocosa quanto più sinistra: “E dunque: generandosi verbi, e aggettivi, e interiezioni, e interpunzioni, piagandosi la lucida aria di firme, e sigilli, e paraffì, fermentando taciturne rime, sinuose grafie ecclesiastiche, partorendo e principali e dipendenti, assemblando greggi, e poi villaggi, quindi metropoli di capitoli, cicalate, sermoni, federando infine il tutto in verboso imperium illustre per scoscese iperboli, apriche metafore, impetuose perorazioni, feraci metonimie; si ingraviderà di seme verbale l’utero morto del nulla, e prenderanno nascita e moto feti fuoriuscendo da svolte bende di scrittura, quatridueni abbagliati e barcollanti, inizialmente orridi, poi docili e domestici”.
Ecco, pertanto, il nostro ossesso cerimoniere fingersi la più divorante ambizione di penetrare nel Testo Unico delle leggi universali, affettare di voler leggere e descrivere e glossare questa generativa inesistenza, questa distruzione impassibile, astrazione onnipresente e brulicante di vivente mortalità; ecco il gioco inane e insieme oltraggioso, grave di materiali piaceri lessicali e sintattici, del Nuovo commento, pseudo-teologica burla, inesorabile pantomima allegorica del Grande Nulla fisico metafisico e letterario (dove il Grande Nulla è poi, c’era da aspettarselo, “nichilsimile”, ossia privo del pregio mistificatorio che avrebbe un classico nulla colato e carato). Ora, il commento a un siffatto “testaccio” sconosciuto risaputo e inafferrabile non potrà che avvitarsi e inerpicarsi su se stesso, diventare via via un ipotetico commento del commento, intalpandosi in una serie mirabolante di chiese intersecate da altre chiese: beffarda e pelantescamente ridevole ingegnosissima fetazione di agghindati mostricciatoli – i rotondi, adiposi, ingordi periodi manganelliani – che sembrano schernire, mentre le corteggiano, tutte le bellurie e lussurie del discorso persuasorio, della dotta dissertazione, dell’alata perifrasi.
Una tanto sarcastica e iperbolica necrologia dell’universo, aretinesca e swiftiana parodia di Daniello Bartoli, consente al lettore più di un divertimento. In prima istanza vi si leggerà la satira, un tantino autopunitiva, del dotto con la sua meschina deformità, insaziabile e saccente; ma subito si scoprirà, sotto a questa pelle ghignante, una più mitologica immagine denigrata e offesa: il viaggio verso il Centro delle cose, verso il possesso del Graal, respinto da accattivanti e maniache deviazioni verso la dannata periferia dello struggimento personale. La struttura del Nuovo commento consiste nel ridicolizzare la Struttura, nel compaginare a imbuto e con piglio divinatorio i foglietti smistati dal caso. Questa raccapricciante e spassevole allegoria dell’impotenza termina, superba ritorsione, nel racconto del cledonista (appunto colui che divina da fortuiti indizi verbali) con l’irrisione dell’allegoria. Qui una possente e malinconica fantasia chiude il divertimento e si mostra indifesa, attonita, forse commossa. La tragedia esiliata compatisce la forbita cerimonia? L’esorcismo non era che un renitente omaggio del beffatore alla Beffa?
“Il Resto del Carlino”, 30 luglio 1969
Questo è il senso definitivo della Letteratura come menzogna. La letteratura ci fa beatamente vili: negandoci l’impatto con la tragedia ci persuade a restare nell’allegoria. Un codardo metodico edonismo ci avventura in questa lusinghevole regione del mondo dove il destino, benché furente e armato di tutte le sue prerogative burocratiche, non può nulla, perché lì come per magia ogni suo segno ordine e complotto vengono sventati e vanificati in una girandola di figure retoriche; lì perfino la morte non è che un tropo; e per il nostro scorpionide autore l’insostituibile, la prediletta tra tutte le figure.
Che la morte sia l’unica realtà razionale, questo il topesco cerimoniere del linguaggio l’ha sempre sospettato, ma si tratta di una verità irrisoria, goffamente ingombrante e intasata nel proprio traffico predicativo. Essendo il razionale altrettanto arbitrario del suo opposto, e il Tutto e il Nulla ugualmente fantasmatici e godibili, strazianti e futili, rimescolarli e sgomentarli nell’irreale conseguenza delle parole – omicide indifferenti del senso comune – è impresa per eccellenza eroicomica: pensieri laterali e deretani prenderanno il luogo del pensiero dialetticamente diretto verso l’oltre, infinti sentimenti astatutamente regressivi e volatili si sostituiranno alle tiranniche espansioni e deflazioni dei sentimenti vissuti; una letteratura nullificante e insaporita d’insania reciterà la farsa di se stessa, ultima dea impura e squisitamente truccata, vezzosamente oscena, e giocosa quanto più sinistra: “E dunque: generandosi verbi, e aggettivi, e interiezioni, e interpunzioni, piagandosi la lucida aria di firme, e sigilli, e paraffì, fermentando taciturne rime, sinuose grafie ecclesiastiche, partorendo e principali e dipendenti, assemblando greggi, e poi villaggi, quindi metropoli di capitoli, cicalate, sermoni, federando infine il tutto in verboso imperium illustre per scoscese iperboli, apriche metafore, impetuose perorazioni, feraci metonimie; si ingraviderà di seme verbale l’utero morto del nulla, e prenderanno nascita e moto feti fuoriuscendo da svolte bende di scrittura, quatridueni abbagliati e barcollanti, inizialmente orridi, poi docili e domestici”.
Ecco, pertanto, il nostro ossesso cerimoniere fingersi la più divorante ambizione di penetrare nel Testo Unico delle leggi universali, affettare di voler leggere e descrivere e glossare questa generativa inesistenza, questa distruzione impassibile, astrazione onnipresente e brulicante di vivente mortalità; ecco il gioco inane e insieme oltraggioso, grave di materiali piaceri lessicali e sintattici, del Nuovo commento, pseudo-teologica burla, inesorabile pantomima allegorica del Grande Nulla fisico metafisico e letterario (dove il Grande Nulla è poi, c’era da aspettarselo, “nichilsimile”, ossia privo del pregio mistificatorio che avrebbe un classico nulla colato e carato). Ora, il commento a un siffatto “testaccio” sconosciuto risaputo e inafferrabile non potrà che avvitarsi e inerpicarsi su se stesso, diventare via via un ipotetico commento del commento, intalpandosi in una serie mirabolante di chiese intersecate da altre chiese: beffarda e pelantescamente ridevole ingegnosissima fetazione di agghindati mostricciatoli – i rotondi, adiposi, ingordi periodi manganelliani – che sembrano schernire, mentre le corteggiano, tutte le bellurie e lussurie del discorso persuasorio, della dotta dissertazione, dell’alata perifrasi.
Una tanto sarcastica e iperbolica necrologia dell’universo, aretinesca e swiftiana parodia di Daniello Bartoli, consente al lettore più di un divertimento. In prima istanza vi si leggerà la satira, un tantino autopunitiva, del dotto con la sua meschina deformità, insaziabile e saccente; ma subito si scoprirà, sotto a questa pelle ghignante, una più mitologica immagine denigrata e offesa: il viaggio verso il Centro delle cose, verso il possesso del Graal, respinto da accattivanti e maniache deviazioni verso la dannata periferia dello struggimento personale. La struttura del Nuovo commento consiste nel ridicolizzare la Struttura, nel compaginare a imbuto e con piglio divinatorio i foglietti smistati dal caso. Questa raccapricciante e spassevole allegoria dell’impotenza termina, superba ritorsione, nel racconto del cledonista (appunto colui che divina da fortuiti indizi verbali) con l’irrisione dell’allegoria. Qui una possente e malinconica fantasia chiude il divertimento e si mostra indifesa, attonita, forse commossa. La tragedia esiliata compatisce la forbita cerimonia? L’esorcismo non era che un renitente omaggio del beffatore alla Beffa?
“Il Resto del Carlino”, 30 luglio 1969