Italo Calvino
Notizia su Giorgio Manganelli
Notizia su Giorgio Manganelli
Agli occhi d’un osservatore esterno, l’ultimissima leva di scrittori e poeti e critici italiani (dico leva, o promotion, e non generazione perché le date di nascita in parte si accavallano a quelle della precedente: Manganelli per esempio è nato nel 1922) si caratterizza per il numero di assistenti universitari, incaricati e liberi docenti che ne fanno parte, e che nella letteratura militante sono entrati avendo dietro di sé già un curriculum di studi specializzati (Manganelli è uno studioso di letteratura inglese), spesso in campi raggiungibili solo dagli studi specializzati e che le precedenti leve letterarie non si sognavano di frequentare (si potrebbero contare per esempio quanti tra loro – e qui non mi riferisco a Manganelli – sono definibili “medievalisti”). Se si pensa che da dopo l’epoca di Carducci la letteratura italiana militante s’era separata dall’università e che da allora ad oggi gli scrittori e i poeti sono stati per lo più persone che nell’università si sono fermate poco o affatto, ecco che si ha il quadro d’un cambiamento non solo sociologico. Fino a ieri la letteratura si poneva di fronte all’università come portavoce della “vita” (o della “vita moderna” a seconda dell’inclinazione ideologica); la cultura (talora anche di prim’ordine) degli scrittori e dei poeti si caratterizzava per essere dettata da interessi di “fuori”; ogni volta che un letterato militante – di solito un critico –vinceva una cattedra universitaria, questo significava là dentro l’affermazione d’una cultura diversa. Oggi l’asse della polemica sembra capovolto: dall’università versus il “fuori”; per la nuova leva letteraria non soltanto le più moderne metodologie specialistiche, usate una per volta o tutte insieme, ma anche la bibliografia erudita, il latino degli incunaboli, le figure della scolastica, sono strumenti di critica alla vita moderna (“di massa” oppure “borghese” a seconda del tipo di escaton che le si riserva) o alla vita tout-court, per chi si rifiuta di vedervi sia escaton che processo storico o barlume di significati.
Manganelli, lo situeremmo subito tra questi ultimi. Perché allora, a me che continuo a giudicare i libri dal punto di vista di quel “fuori” (sempre più difficile da definire), il libro uscito l’anno scorso da Feltrinelli (Hilarotragoedia) è stata una felice sorpresa? Per l’abbondanza e qualità di divertimento e di invenzioni, certo, e sia nella scrittura sia nelle immagini. Ma anche perché la forma in cui l’autore ordina le sue invenzioni non è quella del romanzo ma quella del trattato: e da tempo m’aspettavo che qualcuno cominciasse a farlo.
Una parodia di trattato, ci propone Manganelli, sul tipo dei libelli di Swift, basata sulla contrapposizione tra la profusione di ghiribizzi lirici che fa da polpa al libro e l’ordine didascalico e sistematico che gli fa da scheletro. Anche il Discorso che pubblichiamo qui partecipa della stessa forma: con ancora maggior rigore, se vogliamo, dato che il personaggio-io che nell’Hilarotragoedia dominava il campo, qui è cancellato. Ma questa rimozione del personaggio-io non direi che segni un vantaggio per questo testo rispetto al volume precedente: senza la carica di struggimento autobiografico a premergli dentro, l’impaginazione manualistica dell’Hilarotragoedia avrebbe avuto poco significato; naturalmente si può oggettivarla di più, quella carica, spalmarla sulle cose; però la temperatura di fusione dev’essere sempre alta, perché il rischio della parodia goliardica o professorale è lì appostato, pronto a prendere il campo appena si comincia a giocare a freddo; e questo proprio perché l’oggetto vero della narrazione è solo lirico, e quindi l’io è il vero contenuto e il vero personaggio; invece se Manganelli scrivesse su un contenuto oggettivo per lui non finto, allora della presenza diretta del personaggio-io non avrebbe più tanto bisogno; ma allora non sarebbe più Manganelli, perché per lui l’unico oggetto dello scrivere è il proprio linguaggio.
Invece non è solo come travestimento lirico che penso possa valere la riproposta manganelliana del “trattato”. Penso al posto che il “romanzo” ha occupato nelle nostre preoccupazioni (di noi insieme corresponsabili e vittime della nostra situazione letteraria) prima come “imperativo del romanzo” che nel ventennio ’40-’60 ebbe tanto peso sia positivo (c’era quel ritardo italiano che si voleva in qualche modo cercare di recuperare) sia negativo (per la trappola ritardatrice in cui cascarono anche i più avvertiti, che avrebbero avuto i mezzi culturali per infischiarsene e andare avanti; e per gli allora più giovani le ambizioni malposte, i talenti sprecati, le fatiche inutili); adesso come “imperativo dell’anti-romanzo”, che in Francia all’ombra del panciotto di Flaubert ha un senso ben preciso e garantisce la continuità dell’istituto proprio nell’esperirne la natura fantomatica, mentre per noi, che l’istituto avemmo gracile e quasi fantomatico per sua costituzione naturale, la contestazione delle sue convenzioni linguistiche e gnoseologiche non è impresa eroicamente parricida ma un gioco che si esaurisce presto.
Forse è giunto il momento per trasformare il nostro irrecuperabile ritardo in un vantaggio, nel senso che la nostra è una letteratura meno “specializzata”. Uso il termine “specializzazione” come lo si usa in biologia, nella teoria della evoluzione: una specie animale più “specializzata” è quella che ha sviluppato di più le sue caratteristiche in relazione a particolari circostanze e come tale le è più difficile adattarsi a nuove situazioni. Per esempio i dinosauri pare fossero animali tanto “specializzati” che posti di fronte a un rapido cambiamento di vegetazione morirono tutti; l’uomo, invece, deve le sue varie fortune al fatto di essere un animale il cui processo di “specializzazione” si è fermato a una fase più arretrata e quindi non c’è cambiamento di nutrizione o di clima che gli faccia impressione.
La “specializzazione” nel senso del romanzo sette-ottocentesco ha appena scalfito la nostra letteratura, in cui la nozione di prosa è rimasta dominante su ogni distinzione di generi, e comprensiva d’una continuità dal Trecento a oggi. Non è stato tante volte detto che la storia della nostra narrativa passa anche attraverso le carte dei cronisti e dei viaggiatori, le epistole, le ambascerie, gli exempla dei predicatori e ogni altro genere di scrittura pratica? Questa nozione di prosa dovrebbe ormai essersi riscattata dalla accezione lirica, evocativa, puristica che fu propria della “prosa d’arte” (un episodio di “specializzazione” estinto e già lontano); da tempo sappiamo che la vera prosa italiana del nostro secolo è quella di quando Gadda spiega il risotto o la chirurgia o il cemento armato. Se approfondiamo questa idea di prosa come scrittura che si impasta per formarci una spiegazione delle cose, sarà di lì che potremo inserirci nella problematica attuale dell’écriture con qualcosa da dire, sarà di lì che i gamberetti di Ponge non ci saranno alieni, e magari ci diventerà più vicino anche il discorso di Leiris quando tira fuori dalle latebre della propria coscienza la genesi d’un qualsiasi segno: di lì certo più che dalla parte dell’esaurimento delle forme romanzesche.
È la materia del romanzo, più che le forme, che così si ripropone e discute; una materia – persone cose luoghi attraverso l’immaginazione – che può essere ordinata su un piano “sistematico” anziché “sintagmatico” e pur restare racconto, come mi pare accada in Manganelli. (Guardate che io adotto dei termini imparati da poco nei libri teorici solo se corrispondono a qualcosa di cui avevo la fatto esperienza per conto mio nella pratica, quando ancora non potevo dar loro un nome; e lo so che poi questi termini non quadrano perfettamente con quel che voglio dire, e rischio o di usarli impropriamente o di farmi portare da loro in un’altra direzione, ma è così che si provano le parole, è così che noi empirici mettiamo a prova le teorie; altro sistema non abbiamo e forse non c’è).
In questo senso insomma va vista l’attualità del lavoro di Manganelli, a dispetto del suo ostentato arcaismo. Arcaismo in cui vedo una faccia italiana di mimesi della trattatistica scientifico-religioso-stregonesca del nostro Cinquecento e Seicento (dal Della Porta al Campanella) e una faccia inglese di capovolgimento burlesco dell’opera dotta (Swift), con forte intromissione della presenza lirica dell’autore in funzione di esplorazione della miseria umana (quell’esplorazione che nel Seicento aveva toccato punte vertiginose e solenni: Burton, Donne) e poi confinante (attraverso Sterne) con l’ironia romantica, mista di egotismo e pietà di sé; ed è su questo fondo di deiezione fisiologico-esistenziale che viene a specchiarsi capovolto un repertorio di immagini medievali, (anche lui, allora!) l’interesse (giocoso non si sa fino a che punto) per le allegorie dell’oltretomba.
L’“anglismo” di Manganelli capita dunque a proposito nella messa in discussione che stavo tentando della egemonia (francocentrica) della nozione di roman, dato che proprio la cultura letteraria inglese è quella che ha mantenuto viva la più vasta nozione di prosa, forte della sua ricchissima storia, articolata in una gamma di generi sempre ibridi e polimorfi.
Ho detto delle componenti letterarie di Manganelli e non abbastanza dei suoi esiti più moderni. Manganelli facendo il trattato sulla “natura discenditiva dell’uomo” o sulla “tanatoglossa”, impasta un repertorio di immagini teologiche o penitenziali con un repertorio di immagini scientificizzanti (ricordiamo, nel suo libro, la Chiosa sull’ameba e la Chiosa sulle pantegane) cavandone effetti di antiumanistico sfottò. Per me le riuscite migliori, sul piano dell’immaginazione come su quello del linguaggio, sono questi contrasti di piani culturali e linguistici diversi, come – nel testo che qui presentiamo – la madrevite che racchiude i giorni infernali, o espressioni del tipo “plancton di morti”. Tanto che ne vorrei di più, ne vorrei a getto continuo, mentre invece dove il gioco è solo d’arcaismi uno infilato dopo l’altro mi diverto meno.
Questo tipo d’analisi probabilmente Manganelli lo rifiuta perché la sua bestia nera è lo storicismo e quindi è per lui illegittimo distinguere e classificare storicamente vari piani del suo linguaggio: un “universo linguistico” può essere definito solo all’interno di esso. Ma che senso c’è che sia io a esporre le idee che Manganelli non s’è ancora deciso a mettere sulla carta? Posso tutt’al più dire che la mia impressione (di persona che, abituata a pensare in termini storici, s’amareggia della bolsaggine cui la cultura storicistica è approdata, e s’interessa a tutto ciò che è spiegazione di “come sono fatte le cose”) è che l’antistoricismo di Manganelli e il suo imperturbabile gusto del rigore intellettuale (che io giudico paradossale, e apprezzo in quanto tale) siano una sfida, un pungolo, molto più utili di quel vago escatologismo millenaristico che da più parti viene spacciato per prospettiva storica. Insomma, io sospetto dell’etichetta rivoluzionaria sovrapposta a materiali culturali che non si ha il coraggio di manifestare per quel che sono – schegge della grande polemica contro il razionalismo e il concetto di progresso – e quindi pèrdono anche il loro originario valore di contestazione e non servono che a far fumo. Invece chi, come Manganelli, si guarda bene dal dirsi...
Ma figuriamoci se Manganelli si lascerebbe appioppare una utilizzazione in qualche modo “positiva”! Perciò mi fermo qui: del resto, è un momento in cui nessuno ha piacere d’essere lodato da nessuno.
“Il Menabò”, 8, 1965; ora in Italo Calvino, Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Mondadori, Milano 1995
Manganelli, lo situeremmo subito tra questi ultimi. Perché allora, a me che continuo a giudicare i libri dal punto di vista di quel “fuori” (sempre più difficile da definire), il libro uscito l’anno scorso da Feltrinelli (Hilarotragoedia) è stata una felice sorpresa? Per l’abbondanza e qualità di divertimento e di invenzioni, certo, e sia nella scrittura sia nelle immagini. Ma anche perché la forma in cui l’autore ordina le sue invenzioni non è quella del romanzo ma quella del trattato: e da tempo m’aspettavo che qualcuno cominciasse a farlo.
Una parodia di trattato, ci propone Manganelli, sul tipo dei libelli di Swift, basata sulla contrapposizione tra la profusione di ghiribizzi lirici che fa da polpa al libro e l’ordine didascalico e sistematico che gli fa da scheletro. Anche il Discorso che pubblichiamo qui partecipa della stessa forma: con ancora maggior rigore, se vogliamo, dato che il personaggio-io che nell’Hilarotragoedia dominava il campo, qui è cancellato. Ma questa rimozione del personaggio-io non direi che segni un vantaggio per questo testo rispetto al volume precedente: senza la carica di struggimento autobiografico a premergli dentro, l’impaginazione manualistica dell’Hilarotragoedia avrebbe avuto poco significato; naturalmente si può oggettivarla di più, quella carica, spalmarla sulle cose; però la temperatura di fusione dev’essere sempre alta, perché il rischio della parodia goliardica o professorale è lì appostato, pronto a prendere il campo appena si comincia a giocare a freddo; e questo proprio perché l’oggetto vero della narrazione è solo lirico, e quindi l’io è il vero contenuto e il vero personaggio; invece se Manganelli scrivesse su un contenuto oggettivo per lui non finto, allora della presenza diretta del personaggio-io non avrebbe più tanto bisogno; ma allora non sarebbe più Manganelli, perché per lui l’unico oggetto dello scrivere è il proprio linguaggio.
Invece non è solo come travestimento lirico che penso possa valere la riproposta manganelliana del “trattato”. Penso al posto che il “romanzo” ha occupato nelle nostre preoccupazioni (di noi insieme corresponsabili e vittime della nostra situazione letteraria) prima come “imperativo del romanzo” che nel ventennio ’40-’60 ebbe tanto peso sia positivo (c’era quel ritardo italiano che si voleva in qualche modo cercare di recuperare) sia negativo (per la trappola ritardatrice in cui cascarono anche i più avvertiti, che avrebbero avuto i mezzi culturali per infischiarsene e andare avanti; e per gli allora più giovani le ambizioni malposte, i talenti sprecati, le fatiche inutili); adesso come “imperativo dell’anti-romanzo”, che in Francia all’ombra del panciotto di Flaubert ha un senso ben preciso e garantisce la continuità dell’istituto proprio nell’esperirne la natura fantomatica, mentre per noi, che l’istituto avemmo gracile e quasi fantomatico per sua costituzione naturale, la contestazione delle sue convenzioni linguistiche e gnoseologiche non è impresa eroicamente parricida ma un gioco che si esaurisce presto.
Forse è giunto il momento per trasformare il nostro irrecuperabile ritardo in un vantaggio, nel senso che la nostra è una letteratura meno “specializzata”. Uso il termine “specializzazione” come lo si usa in biologia, nella teoria della evoluzione: una specie animale più “specializzata” è quella che ha sviluppato di più le sue caratteristiche in relazione a particolari circostanze e come tale le è più difficile adattarsi a nuove situazioni. Per esempio i dinosauri pare fossero animali tanto “specializzati” che posti di fronte a un rapido cambiamento di vegetazione morirono tutti; l’uomo, invece, deve le sue varie fortune al fatto di essere un animale il cui processo di “specializzazione” si è fermato a una fase più arretrata e quindi non c’è cambiamento di nutrizione o di clima che gli faccia impressione.
La “specializzazione” nel senso del romanzo sette-ottocentesco ha appena scalfito la nostra letteratura, in cui la nozione di prosa è rimasta dominante su ogni distinzione di generi, e comprensiva d’una continuità dal Trecento a oggi. Non è stato tante volte detto che la storia della nostra narrativa passa anche attraverso le carte dei cronisti e dei viaggiatori, le epistole, le ambascerie, gli exempla dei predicatori e ogni altro genere di scrittura pratica? Questa nozione di prosa dovrebbe ormai essersi riscattata dalla accezione lirica, evocativa, puristica che fu propria della “prosa d’arte” (un episodio di “specializzazione” estinto e già lontano); da tempo sappiamo che la vera prosa italiana del nostro secolo è quella di quando Gadda spiega il risotto o la chirurgia o il cemento armato. Se approfondiamo questa idea di prosa come scrittura che si impasta per formarci una spiegazione delle cose, sarà di lì che potremo inserirci nella problematica attuale dell’écriture con qualcosa da dire, sarà di lì che i gamberetti di Ponge non ci saranno alieni, e magari ci diventerà più vicino anche il discorso di Leiris quando tira fuori dalle latebre della propria coscienza la genesi d’un qualsiasi segno: di lì certo più che dalla parte dell’esaurimento delle forme romanzesche.
È la materia del romanzo, più che le forme, che così si ripropone e discute; una materia – persone cose luoghi attraverso l’immaginazione – che può essere ordinata su un piano “sistematico” anziché “sintagmatico” e pur restare racconto, come mi pare accada in Manganelli. (Guardate che io adotto dei termini imparati da poco nei libri teorici solo se corrispondono a qualcosa di cui avevo la fatto esperienza per conto mio nella pratica, quando ancora non potevo dar loro un nome; e lo so che poi questi termini non quadrano perfettamente con quel che voglio dire, e rischio o di usarli impropriamente o di farmi portare da loro in un’altra direzione, ma è così che si provano le parole, è così che noi empirici mettiamo a prova le teorie; altro sistema non abbiamo e forse non c’è).
In questo senso insomma va vista l’attualità del lavoro di Manganelli, a dispetto del suo ostentato arcaismo. Arcaismo in cui vedo una faccia italiana di mimesi della trattatistica scientifico-religioso-stregonesca del nostro Cinquecento e Seicento (dal Della Porta al Campanella) e una faccia inglese di capovolgimento burlesco dell’opera dotta (Swift), con forte intromissione della presenza lirica dell’autore in funzione di esplorazione della miseria umana (quell’esplorazione che nel Seicento aveva toccato punte vertiginose e solenni: Burton, Donne) e poi confinante (attraverso Sterne) con l’ironia romantica, mista di egotismo e pietà di sé; ed è su questo fondo di deiezione fisiologico-esistenziale che viene a specchiarsi capovolto un repertorio di immagini medievali, (anche lui, allora!) l’interesse (giocoso non si sa fino a che punto) per le allegorie dell’oltretomba.
L’“anglismo” di Manganelli capita dunque a proposito nella messa in discussione che stavo tentando della egemonia (francocentrica) della nozione di roman, dato che proprio la cultura letteraria inglese è quella che ha mantenuto viva la più vasta nozione di prosa, forte della sua ricchissima storia, articolata in una gamma di generi sempre ibridi e polimorfi.
Ho detto delle componenti letterarie di Manganelli e non abbastanza dei suoi esiti più moderni. Manganelli facendo il trattato sulla “natura discenditiva dell’uomo” o sulla “tanatoglossa”, impasta un repertorio di immagini teologiche o penitenziali con un repertorio di immagini scientificizzanti (ricordiamo, nel suo libro, la Chiosa sull’ameba e la Chiosa sulle pantegane) cavandone effetti di antiumanistico sfottò. Per me le riuscite migliori, sul piano dell’immaginazione come su quello del linguaggio, sono questi contrasti di piani culturali e linguistici diversi, come – nel testo che qui presentiamo – la madrevite che racchiude i giorni infernali, o espressioni del tipo “plancton di morti”. Tanto che ne vorrei di più, ne vorrei a getto continuo, mentre invece dove il gioco è solo d’arcaismi uno infilato dopo l’altro mi diverto meno.
Questo tipo d’analisi probabilmente Manganelli lo rifiuta perché la sua bestia nera è lo storicismo e quindi è per lui illegittimo distinguere e classificare storicamente vari piani del suo linguaggio: un “universo linguistico” può essere definito solo all’interno di esso. Ma che senso c’è che sia io a esporre le idee che Manganelli non s’è ancora deciso a mettere sulla carta? Posso tutt’al più dire che la mia impressione (di persona che, abituata a pensare in termini storici, s’amareggia della bolsaggine cui la cultura storicistica è approdata, e s’interessa a tutto ciò che è spiegazione di “come sono fatte le cose”) è che l’antistoricismo di Manganelli e il suo imperturbabile gusto del rigore intellettuale (che io giudico paradossale, e apprezzo in quanto tale) siano una sfida, un pungolo, molto più utili di quel vago escatologismo millenaristico che da più parti viene spacciato per prospettiva storica. Insomma, io sospetto dell’etichetta rivoluzionaria sovrapposta a materiali culturali che non si ha il coraggio di manifestare per quel che sono – schegge della grande polemica contro il razionalismo e il concetto di progresso – e quindi pèrdono anche il loro originario valore di contestazione e non servono che a far fumo. Invece chi, come Manganelli, si guarda bene dal dirsi...
Ma figuriamoci se Manganelli si lascerebbe appioppare una utilizzazione in qualche modo “positiva”! Perciò mi fermo qui: del resto, è un momento in cui nessuno ha piacere d’essere lodato da nessuno.
“Il Menabò”, 8, 1965; ora in Italo Calvino, Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Mondadori, Milano 1995