Riga n.
Alberto Arbasino
Angelo Guglielmi
L'inferno linguistico di Giorgio Manganelli

Questo libro di Manganelli nasce dall’odio. Dall’odio per la condizione umana, il suo doloroso sviluppo, i suoi insensati de­stini. Nasce dall’odio, cresce attraverso la maldicenza, si conclude con un insulto. È un libro di cattivissimo umore che allontana da sé con sdegno ogni spirito conciliativo e di tolleranza, che rifiuta i subdoli inviti alla comprensione che mal nascondono la loro natura di inviti a lasciar correre, a chiudere un occhio. Ma che lasciar correre! Apriamoli gli occhi piuttosto! E vediamo. Vediamo gli uomini dominati da una voglia pazza di sprofon­dare della quale è indizio naturale la stessa forma del loro corpo terminante a fuso; sentiamo gli uomini gridare di gioia per ogni gradino in meno conquistato. Ma che si aspettano? Intanto hanno meritato di discendere? A giudicare dall’ipocrisia con cui pronunciano gli addii (eufemismi per infedeltà e tradi­menti), dobbiamo pensare di no. Ma comunque, una volta che sono discesi, che trovano? Sì, d’accordo; l’Ade. È anche per que­sto che sono chiamati Adediretti. Ma l’Ade che cosa è? È il luogo di caduta dell’Angelo cattivo? È una piaga di pace in cui non urge più l’angoscioso problema dell’altezza? O non è piuttosto un buco, un orifizio in qualche modo analogo a quello che possono scoprire nel loro corpo al termine della spina dorsal­e adibito alle stesse funzioni finali e conclusive? Disgraziati, ci siete cascati!... È proprio quello che meritavate!

Questa feroce immaginazione che abbiamo tentato più sopra di riassumere, è il contenuto di Hilarotragoedia. Diciamo tentato in quanto sappiamo di non esserci riusciti se non molto parzialmente trattandosi di una immaginazione quanto mai impren­dibile. È una immaginazione che cresce continuamente su se stessa tanto che non c’è un solo termine che si arresti, che non sia la base per nuove acrobazie intellettuali e cresce sotto la spinta di un impegno linguistico così furioso di cui l’eguale si può trovare soltanto in Gadda.

Le immaginazioni-allucinazioni di Manganelli prendono sempre l’avvio da un pretesto realistico, da uno specifico dato di fatto da altri o dall’autore stesso esperito. Ma questo dato di fatto non riesce a salvare i suoi contorni realistici per più di tanto. Subito è aggredito, sconnesso e smontato. Quindi rimontato secondo un tutt’altro disegno. Un disegno da vertigine: improbabile e rigoroso, solido e spencolante, assurdo e armonioso Protagonista di questa allucinante operazione è la lingua che è anche la vera e grande protagonista di Hilarotragoedia. È essa che crea e che distrugge, che fa e che disfa. La lingua in Manganelli si finanzia da sé: è insieme funzione e norma; legge e esercizio della legge. È tout court la realtà. Per Manganelli le cose non esistono per se stesse: il loro impianto obiettivo è tutt’al più il grafico della loro morte: esse possono vivere solo nel linguaggio che naturalmente si applica a schiodarle da quell’impianto realistico per assumerle nel suo universo. Quante volte abbiamo sentito parlare Manganelli di universo linguistico. Ora sappiamo che cosa intendeva dire.

La lingua di Manganelli è un universo proliferante. Al suo centro si agita una invenzione sfrenata. In essa trovano posto apporti verbali delle più varie provenienze, in arrivo dai vocabolari di categoria più impensabili o da vocabolari perfettamente arcaici e in disuso. Il tutto secondo le esigenze di una espressività violenta, deformante e grottesca. Né mancano combinazioni verbali ottenute con la mescolanza di fonemi a radice diversa nonché con l’uso straordinario e a sorpresa di particolari prefissi o suffissi. Peraltro il complesso di questo materiale verbale, già di per sé così agitato ed esasperato, viene assunto in strut­ture sintattico-stilistiche che ne accentuano la frenesia e la fu­ria. Manganelli costruisce le frasi facendo il verso ai trattatisti del tardo Rinascimento, di cui imita il periodare lungo e frasta­gliato, ricco di incisi e di rimandi. Adotta tutti gli espedienti e gli artifici raccomandati dalla retorica classica a cominciare da quello di iterare uno stesso concetto, attraverso una sequela incalzante di parole sempre più precise, al fine di chiarirlo me­glio e definitivamente. Si adegua a tutti i procedimenti formali cui ha sempre fatto ricorso il razionalismo sofistico e dimostra­tivo. Naturalmente il sapore arcaico che così consegue a tutto l’istituto della lingua ha valore provocatorio e dissacrante. Hila­rotragoedia presenta un universo linguistico a forte carica eversivo-dirompente all’interno del quale circola e si scatena una corrente di espressività incontenibile sradicante, melmosa, tra­volgente. E che sia questa lingua così impura, intricata, stravol­ta, artificiosa, esasperata e frenetica, quell’Ade di cui l’autore al termine del suo trattato si chiede cos’è? Manganelli ci propone piuttosto un inferno linguistico. La lingua è l’Ade che cercava. Non come luogo di pena ma come possibilità di scampo dalla ipocrisia dei beati che si esprimono con gesti e parole tanto ovvii quanto ingannevoli. E anche come esaltazione della nostra malattia e della nostra opzione per il mostro, consapevol­mente e responsabilmente decisa contro l’ordine volgare e buro­cratico del mondo. Questa è la lingua di Manganelli. Questa è l’Ade di cui si fa parola in Hilarotragoedia. Ora sappiamo che cosa dobbiamo leggere dietro i due punti con cui termina il vo­lume.

Tuttavia l’invenzione del discorso attraverso il linguaggio, cioè l’uso del linguaggio in senso creativo, la lingua che diventa significato non è attuato per tutta l’estensione del libro. Anzi subisce qui e lì qualche battuta d’arresto in coincidenza di certe reticenze dell’autore, o di certi suoi smarrimenti improvvisi. Ci spieghiamo. Una prosa come è questa di Manganelli che parte da un dato realistico (che può essere tanto l’esperienza di un fatto vissuto quanto la considerazione sui di esso) per creare all’interno di esso una invenzione linguistica, richiede da parte dell’autore una franchezza iniziale, una sincerità rispetto a quel dato di fatto originario che solo nella misura in cui è totalmente esplicitato e crudamente scoperto può garantire l’autenticità del processo creativo. Allorché invece l’autore è reticente rispetto a quel fatto originario (e lo è non tanto con il lettore quanto con se stesso) – ciò che forse avviene in riferimento ad alcune esperienze troppo personali e autobiografiche nei riguardi delle quali è quasi impossibile essere totalmente espliciti – il linguaggio invece di innestarsi in quel fatto per diventare creativo di esso, per dargli un significato, diventa invece un modo di non dire. Resta sordo e la sua frenesia in genere così feconda diventa iste­ria inconcludente. Ciò si verifica soprattutto, a nostro modo di vedere, nel capitoletto intitolato “Inserto sugli addii” o meglio alcune parti di esso, quelle soprattutto riguardanti il tema della solitudine e della infedeltà amorosa. Vi è poi un altro pericolo di cui Manganelli di tanto in tanto incorre che è quello di avere dei mancamenti, cioè di perdere la consapevolezza del significato del suo esercizio linguistico (perdita anch’essa relativa al mancato controllo della materia su cui quell’esercizio deve innestarsi) e quindi di spendersi in acrobazie stilistiche immo­tivate e gratuite. Sono quelle parti in cui l’autore si lascia pren­dere dal giuoco dell’argomentare controargomentando, che non riesce a mantenere in termini provocatori, ma di cui egli stesso rimane dupe. E allora il paradosso non è più illuminante e il disegno arcaico del discorso perde la carica ironica e dirom­pente: in altre parole sono quelle parti con cui l’autore non riesce a controllare il suo estro razionalizzante e sofistico.

Comunque, Manganelli è abbastanza spietato per difendersi ed evitare nella più gran parte dei casi questi “vuoti” in cui tendenzialmente rischia di cadere. Gli piace troppo la sua felicità, così nera e sinistra, per perderla di vista!
 
 
in “il verri”, 14, 1964; poi in Angelo Guglielmi, Vero e falso, Feltrinelli, Milano 1968
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