Roberto Casati e Achille C. Varzi
Esercizi di attenzione
Esercizi di attenzione
Commentare un disegno di Steinberg è per un filosofo come commentare il lavoro di un collega (e quanto diverso, quanto più gratificante che commentare le boutade illusionistiche di un Escher e la loro spessa e fumosa simbologia). Il perché non è facile da sviscerare. In parte vorremmo dire che si tratta di disegni che parlano, ma questo non ci porta molto lontano: tutti i disegni dicono qualcosa, in parte. Vorremmo forse anche dire che si tratta di disegni che danno da pensare, ma anche questa caratterizzazione lascia il tempo che trova se non si offre una qualche spiegazione di come ciò avvenga. E la spiegazione rischia di essere aneddotica, di parlare più di colui che la cerca che non del disegno stesso.
Diciamo allora che quelli di Steinberg sono esercizi di attenzione. Che richiedono all’osservatore una qualche forma di straniamento. In una lettera ripresa da Verlaine nelle sue Ariettes, Cyrano de Bergérac raccontava “dell’ombra degli alberi nell’acqua”: “
L’usignolo che dall’alto d’un ramo si guarda dentro crede di essere caduto nel fiume. È in cima a una quercia, e tuttavia ha paura di annegare”. L’ombra, naturalmente, è il riflesso, e Cyrano invitava il suo lettore a guardare lo spazio nel riflesso come se fosse, non un’immagine, ma un’estensione del mondo reale. Esercizio che è più difficile di quanto sembri, per la stessa ragione per cui non serve mettere dei grandi specchi nelle case sperando di “ingrandire” lo spazio; non si ingrandisce nulla, la percezione anzi deve continuamente faticare per ricordare al corpo, che sembra non saperlo, che al là di un certo limite vi è qualcosa che assomiglia alla stanza in cui si aggira normalmente. Di fatto, lo spazio riflesso in uno specchio – e ancor di più in uno specchio d’acqua – è come se non contasse per la percezione. Quindi l’esercizio di Cyrano era propriamente un esercizio di attenzione. E così i disegni di Steinberg: viene richiesto, a chi legge la lettera di Cyrano stando seduto in riva a un’acqua cheta, o a chi guarda un disegno di Steinberg, di far mente locale, di concentrarsi sui piccoli incidenti che si producono nella scena.
I lavori di Steinberg sono ricchi di episodi locali, soprattutto quei disegni in cui è appunto lo specchio orizzontale della natura a definire i contorni della scena. Non sembra esserci un tema, ma molti piccoli elementi raccolti in una rapsodia visiva. O per meglio dire: il tema è appunto la metafisica un po’ bizzarra del mondo dei riflessi così come la si ritrova nei tanti momenti in cui si manifesta in un luogo. Anche il personaggio che vi ricorre – una serissima caricatura di uomo magrittiano, con bastone e cappello a tesa – è un momento fra i tanti: un segnaposto per lo spettatore, un compagno di osservazione con cui ciascuno di noi potrebbe a un certo punto condividere un parere. Se dovessimo contare gli oggetti in un disegno come quello del fulmine che si riflette nell’acqua, probabilmente non ci fermeremmo dopo aver elencato il personaggio-segnaposto, due rive, una bandiera, una casa, una palma, un abete e un fulmine (ammesso che quest’ultimo conti come un oggetto). Probabilmente vorremmo includere, uno ad uno, i riflessi di tutte queste cose, e forse anche l’ombra del personaggio. Sono proprio questi riflessi-oggetto a costituire il tema del disegno. Ed è solo nel momento in cui l’osservatore riesce a coglierne la singolarissima realtà che il disegno raggiunge il suo scopo. I riflessi in uno specchio d’acqua sono sempre un po’ tremolanti: e allora il riflesso tremolante di un oggetto zigzagante, come un fulmine o un abete, cancellerà il tremolio, come in una doppia negazione, e ci restituirà un improbabile fulmine dritto e un improbabile abete perfettamente triangolare o conico.
I riflessi reificati sono esche per l’attenzione. Come spesso accade nell’arte, sono ostacoli che sospendono una routine e obbligano quantomeno a chiedersi che cosa ci facciano lì. Non è detto che si trovi una risposta, ma intanto ci si è fermati, non si è passati ad altro nell’incessante ed estenuante zapping attentivo. Anche quando Steinberg ironizza sui diversi “gradi di realtà” che si manifestano in queste scene è comunque l’esistenza degli oggetti-riflesso a catturare fermamente lo sguardo. La donna sul ponte porta sul capo una giara capovolta . “Quindi o la donna è un riflesso della giara, o la giara un riflesso della donna”, spiegava a Buzzi. E questi due “pseudo-riflessi” sono a loro volta riflessi nell’acqua, dove è la donna a poggiare capovolta sulla giara. Così se la donna è una donna reale, la giara può essere considerata una donna di secondo grado, o viceversa; e siccome i loro riflessi nell’acqua godono di una realtà in qualche modo secondaria rispetto a quella degli oggetti che li producono – una realtà parassitica, che non potrebbe darsi se non in presenza di quegli oggetti – ecco che ci ritroviamo a parlare di realtà di terzo e quarto grado. Questo bisticcio ontologico è ancora più esplicito intorno al personaggio-segnaposto. Non solo l’uomo poggia sull’ombra che lo riflette: i loro riflessi nell’acqua sembrano a loro volta poggiare capovolti sul cappello dell’uomo, con un effetto di accumulo dei gradi di realtà da cui è impossibile distogliere lo sguardo. (Come mai questo accade solo al personaggio-segnaposto e non al cane che siede accanto o all’airone, che pure ha la stessa statura dell’uomo?) Infine la scena della barca, in cui ritroviamo buona parte del Mercanti di pelliccia di Bingham, oleografica celebrazione di un’America che forse non è mai esistita. Di nuovo due realtà che si riflettono una nell’altra, ma con l’anatroccolo a fare la differenza e con una complicazione aggiuntiva su cui lo stesso Steinberg non ha resistito ad essere esplicito: la canoa, il mercante e il gatto non appartengono allo stesso mondo degli altri oggetti che compaiono nel disegno, ma al mondo del dipinto di Bingham. Nel disegno godono già di una realtà di secondo grado. E tuttavia questa pseudo-realtà non eredita i propri riflessi dall’acqua di Bingham: si riflette direttamente nell’acqua di Steinberg, la stessa in cui si riflettono gli altri oggetti del suo mondo.
Steinberg diceva che i riflessi lo incantavano per la stranezza della loro esistenza: “Se guardi soltanto al riflesso, e non a ciò che si riflette, vedi una realtà che esiste soltanto per te”, spiegava ancora a Buzzi. Ma poi aggiungeva subito che quando gettiamo un sasso nel paesaggio all’ingiù, e lo vediamo agitarsi in ogni dettaglio, ci “aspettiamo” quasi di osservare un analogo agitarsi anche nel mondo sovrastante. È intorno a questa caparbia indissolubilità tra la realtà delle cose e la pseudo-realtà dei riflessi – quasi un nesso di dipendenza reciproca, causale prima ancora che esistenziale – che si gioca la metafisica solo apparentemente paradossale di questi disegni. È lì che si nascondono la portata e il senso profondo degli esercizi di attenzione a cui siamo chiamati, al di là degli esempi specifici. Proviamo a mettere sottosopra una fotografia in cui delle montagne si riflettono in un laghetto, o una quinta di case in un canale. Si produce qualcosa di strano e di complesso. Abituati come siamo a dimenticare i riflessi, prendiamo l’immagine non come un capovolgimento ma come un’immagine originale. Il sotto – che era il mondo vero – non lo vediamo neanche, non ci sembra più vero, come se bastasse alle cose essere in un luogo per avere una dignità metafisica ed essere in un altro per perderla. Ora, il sopra subisce un leggero tremolio, come se fosse una realtà vista attraverso un miraggio. Quello che era solo un riflesso sembra ora un dipinto, le increspature dell’acqua pennellate. Non riuscendo a convincerci pienamente come realtà, il riflesso si fa oggetto artistico.
Non vorremmo con questo suggerire che l’attenzione a cui ci invita Steinberg sia esclusivamente di tipo percettivo. In certi casi si tratta di esercizi di attenzione che potremmo definire cognitiva. Lo si vede quando si confrontano tipi diversi di immagini delle cose. Steinberg contrappone in modo discreto ma con fermezza i riflessi alle ombre. Entrambi derivano la propria esistenza da quella di altri oggetti, ed entrambi si prestano allo svolgimento di funzioni per noi importanti, come segnalarci la distanza di un certo oggetto da una certa superficie: se non tocchi la tua ombra, vuol dire che stai volando. Ma le leggi che governano queste funzioni sono diverse nei due casi: la distanza tra l’oggetto e la sua immagine, nel caso del riflesso, sarà la metà di quella che si calcola usando l’ombra (non va dimenticato il raddoppio dello spazio nel riflesso, che si deve quindi scontare dal calcolo finale). Soprattutto, la vita dei riflessi non dipende anche da quella di una sorgente luminosa, come invece avviene per le ombre, e le ombre hanno una vita che non richiede anche uno spazio indipendente, come quello obbligatorio per il riflesso. Nel disegno con la citazione di Bingham, l’omino-segnaposto sfida persino questo assioma: il riflesso gli si attacca come un’ombra, e si proietta in uno spazio che solo nominalmente è quello dello specchio d’acqua. Per colmo, questo riflesso intraprendente ha un’ombra di suo. O meglio – e forse qui si nasconde il momento cruciale del disegno – il riflesso ha un’ombra che ci lascia interdetti: come stabilire se l’ombra che si proietta nell’acqua è l’ombra del riflesso del personaggio, e non invece il riflesso dell’ombra del personaggio?
L’idea stessa di farsi interprete di questi complicati giochi di ombre e riflessi ha per Steinberg un’origine cognitiva prima ancora che percettiva. Scriveva Pascal: “La nostra nozione di simmetria deriva dal volto umano. Perciò cerchiamo soltanto simmetrie in orizzontale e in larghezza, non in verticale o in profondità”. In realtà basta rivolgersi al mondo della natura “in senso lato”, osservava Steinberg, per accorgersi di come invece sia la simmetria verticale a farla da padrona. Il primo specchio dell’umanità è stata l’acqua, in cui l’alto si scambia con il basso, e solo in un secondo tempo abbiamo deciso – per ragioni di convenienza – di fabbricare specchi artificiali che si potessero appendere verticalmente alle pareti. Guardandoci in questi specchi ne restiamo turbati. Ci chiediamo: per quale motivo le immagini riflesse sono invertite solo sull’asse orizzontale? Per quale motivo l’immagine della parte destra del nostro volto non è la parte destra dell’immagine del nostro volto, mentre l’immagine della parte superiore del nostro volto è la parte superiore dell’immagine del nostro volto? Basta però tornare a guardare il grande specchio della natura per rendersi conto del sofisma. Osserviamo un disegno di destra / sinistra? Giriamo di novanta gradi il disegno dell’equazione riflessa e proviamo a riformulare la nostra domanda, adesso che la linea dell’orizzonte è una linea verticale. Oppure lasciamo la pagina com’è e proviamo a chiederci che cosa, nel disegno dei due palazzi, inchiodi la linea di simmetria su quella dell’orizzonte. È anche su queste stranezze che Steinberg richiama la nostra attenzione. Stranezze cognitive, appunto, di cui sarebbe imbarazzante scrivere ma che Steinberg sa descrivere. Non già per abbondanza di dettagli, ma per la selezione accurata che dei dettagli Steiberg sa fare.
Questi esercizi di attenzione non sono, è il caso di dirlo, molto diversi da quelli a cui siamo chiamati quando sentiamo una battuta di spirito. Steinberg vuole essere un umorista. Ma non perché voglia divertirci, o distrarci. Al contrario, il suo è un umorismo che ha come obiettivo esplicito proprio quello di farci vedere una realtà che altrimenti ci sfuggirebbe o dalla quale vorremmo stare alla larga. Citando Sinyavsky, Steinberg diceva che è proprio in virtù della sua stranezza che il linguaggio in rima dei poeti si rivela adatto per parlare di cose strane. “Così si possono dire cose che troveremmo imbarazzante dire in modo normale”. Allo stesso modo, è proprio in virtù della sua stravaganza che l’umorismo di questi disegni riesce a mostrarci la stravaganza del mondo. Farlo diversamente sarebbe non solo noioso e complicato, sarebbe presuntuoso.