Riga n.
Alberto Arbasino
Francesco Poli
SAUL STEINBERG Un artista concettuale, anche

Quando The Passport apparve per la prima volta nel 1954, (come scrive John Hollander nell’introduzione all’edizione del 1979), questo eccezionale libro figurato fu mal interpretato, dato che Steinberg era considerato, dai più, solo un brillante e geniale cartoonist del “New Yorker”, e non un vero artista, non avendo il suo lavoro apparentemente nessuna delle caratteristiche canoniche (tecniche, formali, di contenuto) delle “vere” opere d’arte, né tradizionali né d’avanguardia. In sostanza risultava piuttosto difficile prendere sul serio quei disegni, che peraltro si presentavano loro stessi a prima vista come immagini con dichiarate valenze umoristiche. E si sa che troppo spesso si confonde la seriosità con la serietà. Ma in effetti, al di là della dimensione di più immediato impatto e di più facile lettura, e cioè quella comica, che pure ha una sua importanza fondamentale,  proprio a partire da The Passport  Steinberg  mette a fuoco con molta lucidità,  e con straordinaria inventività, la sua  autentica e specifica identità artistica.
L’anima del suo linguaggio espressivo sta nella nitida tensione essenziale della linea, da cui tutto emerge per galleggiare con stupefacente leggerezza sul foglio bianco, ma a cui tutto inesorabilmente ritorna, in un movimento circolare che non ha, in definitiva, mai dei punti fissi di riferimento, in una continua oscillazione fra piano dei significati e piano dei significanti.
Ciò che colpisce e affascina nelle immagini dell’artista rumeno è che le tematiche da lui previlegiate - che sono prevalentemente legate alla realtà urbana, sociale, culturale e di costume strettamente attuale (in presa diretta con la fenomenologia dell’esistenza quotidiana) – non hanno, in sostanza,  nulla di realistico nel senso comune del termine, e cioè  hanno un carattere solo apparentemente illustrativo o descrittivo, con valenze decisamente paradossali e per molti versi concettuali.  Steinberg  può essere considerato un relativista perchè per lui non esiste una realtà oggettiva, ma solo le innumerevoli interpretazioni che ne vengono date dai più differenti punti di vista, e in questo senso, essendo artista visivo, la sua ricerca si sviluppa tutta all’interno dell’universo dei linguaggi iconici: un attraversamento, un’esplorazione dei più vari territori dell’arte figurativa, delle maniere e degli stili alti e bassi (dallo stile vittoriano al cubismo e all’astrattismo, dal surrealismo ai cartelloni pubblicitari, dalla calligrafia al fumetto e ai caratteri tipografici). 
Il suo lavoro, dunque, si presenta come eminentemente autoreferenziale, come un’arte che ha quale oggetto il modo con cui gli artisti fanno arte. Tuttavia, la dimensione ecclettica e manieristica non prende mai il sopravvento, perché Steinberg non è influenzato in modo passivo dagli stili che mette in scena, al contrario li utilizza straniandoli attraverso un’operazione radicalmente ironica che ne relativizza la portata espressiva e il senso culturale, riconducendoli tutti sotto il segno dell’unico elemento per lui con valore assoluto: la linea.
Questa sembra dotata di una propria autonoma energia interna generatrice di immagini che prendono vita,  per incanto, soltanto a contatto con la superficie della carta.  All in line è il primo libro pubblicato dall’artista nel 1945. Il titolo può significare anche “tutto nella linea”, e già qui compaiono i primi omini (alter ego anonimi dell’artista) che disegnano se stessi, che sono le figure che meglio illustrano il principio fondamentale del lavoro di Steinberg, la sua “filosofia della rappresentazione”. Il più emblematico di questi disegni è forse quello (del 1948) in cui si vede l’omino che traccia una linea a spirale (che, per inciso, è simbolo della vita, ma ha anche una connessione con il labirinto) la quale senza soluzione di continuità prosegue fino a delineare la figura stessa del disegnatore; linea il cui percorso ovviamente può essere letto anche al contrario, come processo di espansione potenzialmente senza fine. Con una sintesi concettualmente fulminante viene visualizzato il problema cruciale del rapporto fra autore e opera, fra l’identità dell’autore e la sua espressione artistica. Qui la concezione idealistica  della creatività viene  messa in gioco, ma solo per essere completamente  svuotata della sua tensione vitalistica romantica: il risultato è l’annullamento della centralità dell’”io creatore”, del soggetto espressivo, che diventa un’entità anonima risucchiata, per così dire, dalla fluida vitalità labirintica del segno grafico. Questa ironica e provocatoria critica dell’identità soggettiva dell’artista (esaltata in quel periodo nell’ambito dell’espressionismo astratto americano) è visualizzata in modo ancora più esplicito da altri disegni che troviamo all’inizio di  The Passport, come per esempio l’omino che cancella il suo volto con una grande X, o quello che si autodisegna tracciando al posto della testa una firma (del tutto incomprensibile) con una calligrafica quanto mai fiorita. Fondamentale in questo senso è anche il disegno del pittore al cavalletto che sta “dipingendo” una grande impronta digitale, elemento di identità individuale per eccellenza (ma che potrebbe anche essere quella di un altro). 
Nel mondo della rappresentazione dell’artista, alla radicale messa in crisi dell’identità soggettiva corrisponde specularmente quella dell’identità oggettiva, vale a dire il legame diretto, referenziale, con la realtà esterna.
Nel caso di Steinberg si può forse parlare di una concezione solipsistica dell’Io e della realtà, nei termini precisamente definiti da Wittgenstein nel suo Tractatus: “Ciò che il solipsismo vuole dire è affatto giusto, soltanto non può essere detto, ma si manifesta. Che il mondo sia il mio mondo si rivela nel fatto che i limiti del linguaggio (del linguaggio che io comprendo) significano i limiti del mio mondo (…) il solipsismo svolto rigorosamente coincide col realismo puro. L’io del solipsismo si contrae in un punto inesteso e resta la realtà coordinata ad esso (…) V’è dunque realmente un senso nel quale in filosofia si può parlare non psicologicamente dell’io”.
Il linguaggio di Steinberg è il disegno (che per lui è “un modo di ragionare sulla carta”) e i limiti del suo mondo coincidono dunque con quelli del suo mondo di segni e con il foglio bianco che li accoglie. Il “realismo puro” sta “all in line”.
Tenendo conto di quanto accennato fin qui appare evidente quanto sia in effetti complessa la personalità di Steinberg, che si nasconde pirandellianamente dietro una infinità di maschere. Non a caso una citazione più volte utilizzata per cercare di inquadrarlo è quella famosa di Oscar Wilde (in Il critico come artista): “L’uomo non è mai se stesso quando parla in prima persona. Dategli una maschera e vi dirà la verità”.  
Ma qual è la verità che ci vuole comunicare questo artista?  Le molte giuste interpretazioni che i migliori critici hanno dato del suo lavoro ci  parlano della sua divertita visione del mondo e della società come una grande teatro delle apparenze; della sua eccezionale capacità di giocare e reinventare tutti gli stili e di manipolarli con eccezionale abilità ; del suo virtuosismo calligrafico e metamorfico; della sua raffinata strategia nella trasformazione delle banalità stereotipate in stranianti non-sense; della grande cultura e della inesauribile curiosità intellettuale che ha sempre sostenuto il suo lavoro; dell’originalità stilistica del suo disegno essenziale (perché uno “stile Steinberg” inconfondibile è in definitiva dominante) che ha avuto un’enorme influenza sui disegnatori umoristici e sui grafici di varie generazioni; e anche naturalmente della dimensione concettuale sui qui si sta riflettendo.
Ma c’è qualcosa di più enigmatico e inafferrabile che sembra perturbare in profondità il linguaggio steinberghiano, il cui registro sistematicamente umoristico sembra non prendere sul serio nulla e sembra rimuovere ogni possibile aspetto doloroso o tragico della realtà. Questo aspetto enigmatico e sottilmente inquietante deriva da una persistente freddezza emotiva, dall’esibita impersonalità, dall’azzeramento intenzionale di qualsiasi valenza psicologica, e dall’enfatizzazione della “superficialità” come dimensione in qualche modo assoluta. Al di là della sempre frammentaria visione “superficiale” della realtà, dove uomini, cose e edifici appaiono fluttuanti senza di forza di gravità, senza punti di riferimento fissi, si percepisce un senso di vuoto, si aprono i territori invisibili dell’assenza. La maschera comica nasconde forse il terribile non senso della vita.  C’è un artista che ha capito probabilmente meglio di tutti questa dimensione dell’arte di Steinberg: Andy Warhol. È un artista all’apparenza molto diverso, ma che quando era disegnatore e illustratore, negli anni’50, non a caso è stato fortemente influenzato da lui, e non solo dal punto di vista stilistico.  Si potrebbe, per certi versi, utilizzare anche per Steinberg, la famosa affermazione di Warhol su se stesso: “Se volete conoscere tutto di lui, guardate alla superficie delle sue opere. Al di là di quella non c’è nulla”. C’è il  Nulla. “Vanità delle vanità, dice l’Ecclesiaste; vanità delle vanità; tutto è vanità”.
 
In M. Belpoliti, G. Ricuperati, Saul Steinberg, “Riga”, 24, Marcos y Marcos, Milano 2005, pp. 377-380.
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