Riga n.
Alberto Arbasino
Giuseppe Di Napoli
Il disegno del disegno di Steinberg

S’è fatto tardi. Anche la falce di luna, più alta e più chiara del solito, non lascia dubbi a proposito e consiglia il signor S. e i suoi amici a rincasare. Il cagnolino, tenuto stancamente a guinzaglio dalla mano sinistra, con il suo sguardo ortogonale fissa i passanti, nello stesso istante in cui, con una leggera deviazione verso destra, lo sguardo del signor S. insegue vicoli, angoli sbrecciati, balconi, tendine, vasi di fiori e quant’altro, all’occorrenza, suggerisca il percorso più breve per rientrare. Con soddisfazione, in parte affievolita dalla incipiente stanchezza, il nostro signor S., accompagnato dall’inseparabile cagnolino, varca finalmente la soglia di casa. Il suo sguardo si inoltra velocemente nella stanza alla ricerca di quello che, più di ogni altra cosa, in quel momento sentiva la necessità: la sua sedia a dondolo. Sta per concludersi una giornata come tante altre. La passeggiata, più lunga del solito, si è rivelata l’unico fatto inconsueto che ha rotto la quotidiana normalità, il ripetitivo, ma rassicurante, susseguirsi degli eventi pomeridiani. Anche oggi il tempo è volato via e con la consueta discrezione e leggerezza di un alito ha sfiorato appena, senza turbarla minimamente, l’ordinaria disposizione delle cose. Di fatti, ogni cosa è sempre là; la loro forma è immediatamente riconoscibile al primo colpo d’occhio. Ognuna di esse, ieri come oggi, è incastonata nel sodalizio del suo intorno. Questo è il tempo che si respira, lo spazio che avvolge le figure e le cose in alcuni disegni di Saul Steinberg, scelti fra i tanti contenuti in uno dei suoi libri che ha per titolo Passaporto1. Cos’è che hanno in comune questi disegni?
Essi sono stati disegnati esclusivamente con un solo ed unico tratto grafico: una semplice linea, una sottile macchia di inchiostro continua e uniforme nella larghezza e omogenea nel tono. Il protagonista assoluto di questi disegni è la linea. Eppure la peculiarità di questi disegni non dipende ovviamente da questo fatto. Ciò che rende i disegni di Steinberg singolari e, per certi versi, unici deriva dal fatto che essi ci spingono ad interrogarci sulla natura del disegno e più precisamente sulla natura della stessa linea. Ogni suo disegno sembra essere concepito per sottoporci in modo sempre sorprendente e creativo un’unica, ma fondamentale, domanda: che cos’è una linea?
Non ci risulta che sia stata trattata con la profondità che merita l’importanza e il ruolo, filogeneticamente irreversibile, che la prima formalizzazione del concetto di linea, unitamente alla sua prima codificazione grafica, ha svolto nell’evoluzione culturale dell’uomo. La linea è stata la più importante invenzione dell’uomo. Senza questo segno-concetto, essenziale tanto al disegno quanto alla scrittura, l’umanità non sarebbe mai riuscita a produrre culturalmente e materialmente ciò che ammiriamo nel linguaggio, nell’arte, nella scienza e nella tecnica di ogni civiltà dell’uomo.
La linea costituisce l’unico elemento, comune a qualunque linguaggio, in grado di visualizzare qualsiasi forma, il susseguirsi degli eventi, l’estensione dello spazio nel tempo, l’intensificazione del tempo nello spazio; ragion per cui essa è tanto il segno della spazializzazione del tempo, quanto quello della temporalizzazione dello spazio. La linea, dunque, per natura possiede un carattere doppio, uno di natura spaziale e uno di natura temporale. Non si hanno linee, né disegnate, né vedute, né pensate fintanto che si mantiene distinta e separata la sua dimensione spaziale da quella temporale; fintanto che si separa la traccia dall’evento.
La temporalità è lineare, e si manifesta in ogni processo e/o successione, ma anche in ogni andamento e collegamento, in ogni continuità ed estensione. Anche la tensione tra due punti è già una linea. Tutto ciò che si muove disegna direzioni e andamenti lineari: la linea cammina e spinge l’occhio più in la, sempre oltre e al di là. La linea è il diagramma fisiognomico del movimento, perché essa ne visualizza non solo la direzione, la velocità e il ritmo, ma ne rende leggibile anche la tensione, l’energia, fisica e psichica che l’ha originata, rendendo così visibile anche la sua anima sottile sospesa tra l’intenzione e la memoria, tra l’attesa e la volontà. Il segno lineare è un evento che nella sua durata scorre nel deserto di carta vivificandone il suo muto biancore. La linea è lo sguardo; è la direzione che l’occhio irradia dal suo punto di vista (dimensione spaziale) ed è il movimento che lo sguardo percorre collegando un punto con un altro. Vedere la forma di un oggetto vuol dire disegnarla con lo sguardo, vuol dire tastarne e ripercorrerne con lo sguardo il suo contorno, così come disegnarla vuol dire ripercorre con la mano, sul foglio di carta, lo stesso movimento compiuto dallo sguardo, rendendolo visibile nel nero della traccia di inchiostro. La mano che traccia una linea insegue l’occhio, e nel rincorrerlo “fa entrare la memoria in ciò che si vede e che non ha passato”2. Le linee disegnano le sinopie delle nostre intenzioni, i vettori delle nostre azioni, la trama e l’ordito dei nostri sogni, l’andamento e la durata del suono, le mappe e le costellazioni dei nostri desideri.
Proviamo ad entrare nella dimensione lineare, proviamo a immaginare come si sente un essere unidimensionale, uno di quelli descritti da Edwin A. Abbott nel suo Flatlandia3.
Gli studiosi della percezione visiva e dei linguaggi visuali convengono nell’assegnare alla linea tre fondamentali funzioni linguistiche: la linea come oggetto; la linea come contorno e la linea come elemento di tessitura delle superfici4.
Proviamo ad analizzare alcuni disegni in cui Steinberg prende di mira proprio queste tre principali forme di codificazione grafica, che rappresentando i cardini della grammatica del disegno, diventano i bersagli privilegiati della sua corrosiva e sovversiva carica antiaccademica e antistituzionale (anche il disegno, in quanto linguaggio storicamente codificato, rappresenta una convezione culturale sul quale Steinberg riversa la sua tagliente ironia). Ciò che rende del tutto singolare il modo di disegnare di Steinberg è l’azione destrutturante che egli mette in scena all’interno dei suoi stessi disegni, con la quale critica ed ironizza le stesse strutture e funzioni linguistiche della linea, perché la loro codificazione si basa su delle vere e proprie aporie percettive. La linea, per definizione è invisibile; è un concetto che l’uomo ha reso visibile per necessità, per poter disegnare con essa sia le cose visibili che quelle invisibili, sia le cose materiali che quelle immateriali5.
 
Il contorno delle idee
Il contorno è l’unico elemento strutturale del disegno che da solo, e più di qualunque altro, è in grado di definire una forma, quell’unica variabile visiva dotata di informazioni essen­ziali e sufficienti per identificare e differenzia­re quasi tutti gli oggetti presenti nel no­stro ambiente di vita. Una semplice linea di contorno, infatti, è già un disegno a tutti gli effetti; si potrebbe dire che essa rappresenta il disegno allo stato puro. La linea di contorno si inscrive in un luogo di chiarezza, dove si distingue nitidamente l’identi­tà delle cose, dove la luce dispiega tutto il suo potere di illuminamento visivo oltre che mentale.
La linea di Steinberg molto raramente si riduce ad essere una linea ottica e nei casi in cui si limita a svolgere questa funzione lo fa soltanto per necessità e mai per scelta poetica. Quando la linea si riduce ad essere fenomenica e denotativa lo fa con una tale leggerezza da apparire immediatamente svalutata e perfino inadeguata; essa risulta incompleta, approssimata, imprecisa, insofferente e restia a racchiudere e a delimitare con precisione le forme. “Quello che cerco di fare è dire con la pittura qualcosa di più di quello che vede l’occhio”6, sostiene egli stesso nella sua autobiografia.
Appena aperta la porta di casa, immediatamente, il cagnolino si precipita a varcarne per primo l’uscio, rischiando così di conficcare il suo muso nella gamba del signor S. La linea che ha inizio dal suo piede anteriore (destro o sinistro?) circoscrive il suo profilo, per tutta la lunghezza della coda tesa all’indietro, poi, però, correndo lungo la schiena incontra la curva del lobo dell’orecchio che si infossa all’interno del collo, scavando una buca molto pericolosa, da compromettere la vita stessa del cagnolino. Ma, nella continuità di un movimento del tutto naturale, la linea di contorno risale in cima alla fronte e prosegue lungo il profilo ripiegando sotto il mento del cane, dove con estrema naturalezza trasforma la discontinuità, dettata dalla sovrapposizione (occlusione parziale) del mento del cane sulla gamba del signor S., in una continuità lineare. La linea che traccia il contorno del cane continua con la linea che contorna la gamba del signor S., prosegue poi il suo cammino risalendo lungo la pancia, e di seguito, lungo il mento fino al punto in cui il setto nasale incontra la fronte. Senza alcuna incertezza di sorta, ora abbandona il profilo del signor S. e si inerpica lungo lo stipite della porta per disegnarne la luce, lo spazio vuoto, che il signor S. sta per colmare con il suo passaggio. La linea, una volta completata la prospettiva del varco trapezoidale, si perde nella fuga del pavimento, lasciando dietro di se ogni cosa aperta e incompleta, ma ognuna in continuità con le altre, tenendole tutte connesse e legate con un unico filo, una linea unica e ininterrotta: un linea che recinge i vuoti e lascia aperti i pieni. A causa della non compenetrabilità dei corpi, la diversa posizione nello spazio del signor S., quella del suo cane e quella dello stipite della porta fanno si che dal punto di vista del disegnatore risultino tre parziali sovrapposizioni. Nei punti in cui una forma antistante si sovrappone ad un’altra forma, retrostante alla prima, determinando così una parziale occlusione, la linea di contorno della forma anteriore non si chiude, come ci si spetterebbe, ma continua il suo percorso raccordandosi con il contorno della forma retrostante. La linea di contorno qui non segnala le discontinuità proiettive delle forme che si occludono una con l’altra, segnalandoci così anche la loro separazione nello spazio, ma paradossalmente essa introduce una continuità tra le discontinuità: la linea non separa ma unisce, collega e tiene in contiguità spaziale e temporale le cose del mondo: metafora visiva di un sodalizio universale delle esistenze nel mondo.
Per la percezione, e per la rappresentazione, la singolarità di una cosa è, nella sua globalità, inscrutabile. La visione globale di una cosa è una visione priva di contorni, giacché essa è, nella totalità delle sue proprietà visive, infinita.
La condizione della nostra visione frontale co-stringe la tridimensionalità delle masse volumetriche di un corpo alla bidimensionale unilateralità della loro proiezione ottica sul piano, riducendole e condannandole ad una immanente parzialità, a una profilatura, al ritaglio di una figura impalpabile.
Lo sguardo non curva dietro ai piani, non segue la curvatura delle superfici, pertanto non afferra, non esperisce direttamente la tridimensionalità dei corpi come una proprietà visibile, o meglio direttamente visibile; ma come una proprietà deducibile per indizi; e pertanto indirettamente come una costruzione a posteriori.
“La linea precede la curvatura delle superfici. Bisogna capire cos’è, prima che faccia corpo”7. La linea che delimita e chiude una forma nello spazio nel separare la figura dallo sfondo, nel dividere il pieno dal vuoto, compie suo malgrado anche l’atto opposto e contrario, quello di tenere insieme le figure con lo sfondo e quello di creare una contiguità tra il pieno e il vuoto, e a voler vedere fino in fondo come stanno le cose ci si rende conto che è proprio in queste indirette conseguenze che ha origine ogni nostra percezione e cognizione dei concetti di distinzione e di identificazione, di comparazione e di differenziazione e di dialettica. Provare a definire che cos’è il pieno senza avere contemporaneamente alcuna percezione del vuoto e viceversa, oppure provare ad avere la cognizione di una forma senza sentirla distintamente separata dallo spazio vuoto che la circonda vuol dire prefigurarsi una situazione inesperibile. Come dice Lao Tze, è dal vuoto del bicchiere che ha origine la sua forma e ad esso deve necessariamente anche la sua funzione, quindi è nel vuoto interno ed esterno al bicchiere che si trova l’essenza della forma del bicchiere medesimo.
Nella natura non esistono linee; non corrono fili neri lungo i bordi delle cose che vediamo; eppure non appena la mano smette di tracciare un contorno qualsiasi ecco che il nostro occhio già vede nello spazio bianco del foglio di carta che la linea ha racchiuso la forma di una cosa, di un oggetto, di una figura umana, di un animale...
La linea di contorno è un’invenzione dell’occhio. “Non ci sono linee oggettive, sono sempre prima o dopo lo sguardo... Il contorno degli oggetti, concepito come una linea che li recinga, non appartiene al mondo visibile, ma alla geometria. Se si segna con una linea il contorno di un mela, lo si rende una cosa, mentre esso è il limite ideale verso cui i lati della mela sfuggono in profondità. Non segnare nessun contorno, significherebbe togliere agli oggetti la loro identità”8.
Tuttavia la percezione dei confini spaziali è una condizione necessaria per poter far si che una qualsivoglia cosa possa essere individuata e discriminata come singolarità. È all’interno di questa contraddizione che trova alimento il lavoro di Steinberg.
I suoi disegni sembrano fatti apposta per esprimere tutta la forza creativa, evocativa, elusiva... della linea, nonché per svelare, come dice E. H. Gombrich, tutte le “trappole delle contraddizioni visive”, che Steinberg con la sua “arguzia” concepisce disegnando e costruendo forme “che sarebbe impossibile costruirle nello spazio reale”9.
In gran parte dei suoi lavori la linea rappresenta l’unico elemento grafico attraverso cui Steinberg disegna la forma, spesso aperta, delle cose e delle figure, costringendo il nostro occhio a completare il movimento iniziato e compiuto per metà dalla mano del disegnatore. Questi disegni richiedono uno sguardo partecipativo e produttivo, perché è la linea a farsi sguardo, dal momento che lo sguardo è gia linea. La linea connette, completa e coinvolge le forme che la mano con-segna allo sguardo del disegnatore. Questo modo di disegnare risponde ad un vero e proprio programma, ad una strategia che lo stesso Steinberg espone con chiarezza e lucidità: “Faccio appello alla complicità del lettore, che trasformerà la linea in significato usando il nostro comune bagaglio culturale, storico, poetico. In questo senso essere contemporanei è essere complici”10.
Immaginiamo Steinberg all’opera: la sua mano sta tracciando la linea di contorno di una forma solida, ma ecco che poco dopo il suo occhio stanco di vederla come tale cominci a vederla come una linea oggetto, come una corda, come un filo di ferro, ... Il disegno prosegue ma l’occhio non è contento e strada facendo cambia ancora idea, ora vede quella linea per quello che essa effettivamente è: una semplice linea di inchiostro nero, un rivolo di liquido nero depositato su di una superficie di carta, e che al suo capriccioso volere, questa volta, appare come una lettera dell’alfabeto o come una traiettoria di un corpo in movimento nello spazio. Che cosa può impedire, a Steinberg, come a chiunque altro di disegnare in questo modo? Solo un codice, una regola, una convenzione culturale, che però è per definizione una contraddizione: la linea essendo unidimensionale è per natura invisibile, pertanto non la si dovrebbe disegnare, perché la sua traccia per poter essere visibile deve possedere almeno due dimensioni. Qualunque sia il senso che si vuole dare ad un segno lineare esso non può venire tacciato di contravvenzione linguistica.
“Ciò che disegno è disegno, il disegno deriva dal disegno. La mia linea vuole far ricordare in continuazione che è fatta di inchiostro”11, afferma Steinberg con estrema lucidità. Sembra di vedere la punta stessa del pennino, con cui Steinberg, nel mentre traccia le linee dei suoi disegni, fende queste nere e profonde sottigliezze per rivelarne la loro aporetica natura, tacitata dal peso e dalla forza coercitiva esercitata da millenarie convenzioni culturali. Eppure nonostante la sua dichiarazione E. H. Gombrich ritiene che Steinberg non riesce a convincerci completamente del fatto che le sue linee sono soltanto delle sottili strisce di inchiostro.
“Per quanto ci sforziamo non riusciamo a vedere solo inchiostro... Il disegno dimostra, se ce ne fosse il bisogno, che la nostra sensibilità alla rappresentazione pittorica è del tutto indipendente dal grado di realismo. Si tratta di una funzione della comprensione, e occorre uno sforzo enorme per inibirla e vedere solo inchiostro”12.
In realtà Steinberg e E. H. Gombrich sanno molto bene che nessuno di noi confonde la linea nera con la cosa che essa riproduce, che il nostro occhio non confonde lo stimolo con il percetto: ognuno di noi vede la forma delle cose delineata da una linea, anche se nessuno di noi vede linee nere lungo i margini delle cose. Il disegnatore è pienamente consapevole del fatto che la linea è una necessità del disegno. Essa ne costituisce il mezzo essenziale. Ma non per questo il suo occhio con-fonde il disegno con la cosa che esso rappresenta. Egli è altrettanto consapevole che la naturalezza con cui noi riconosciamo le cose riprodotte graficamente dipende dal fatto che la visione del disegno attiva le medesime strutture percettive che si attiverebbero se fossimo davanti alla cosa reale. È proprio questo processo che gli consente di scambiare continuamente i ruoli tra il mezzo e il fine; tra l’inchiostro e il significato che configura, facendo così scoppiare, in modo esilarante, le contraddizioni tra ciò che l’occhio vede effettivamente disegnato e ciò che il codice grafico della rappresentazione dovrebbe far vedere. Proviamo ad analizzare in che modo e dove ciò si verifica, secondo Steinberg.
È giunta l’ora in cui la stanchezza prende il sopravvento e spinge il nostro signor S. sulla sua sedia a dondolo, facendolo letteralmente sprofondare al suo interno. Eccolo qua, abbandonato sotto i nostri occhi; ma ciò che ci appare è la figura di uomo spalmata sulla forma della sedia su cui è seduto, oppure siamo davanti a una sedia antropomorfa che ha in parte assunto le fattezze anatomiche di un uomo? Neppure una successiva e più attenta osservazione ci consente di percepire in modo univoco l’immagine. In breve non si capisce dove finisce il corpo dell’uomo e dove comincia l’oggetto sedia: uno continua nell’altra senza soluzione di continuità.
Ma nei punti in cui il disegno, intenzionalmente con-fonde la figura dell’uomo con la forma della sedia cosa succede? Cosa provoca, in termini percettivi e cognitivi, nell’osservatore? Il problema di dove finisce una cosa e dove ne comincia un’altra non è riducibile ad una mera curiosità percettiva, perché oltrepassa l’ambito visivo, del confine tra il visibile e l’invisibile, assumendo una portata molto più vasta di natura epistemica e cognitiva, nonché morale e giuridica: dove finisce il vero e comincia il falso? dove finisce il bene e comincia il male? Lo può sancire solo una convenzione o un codice arbitrario.
In termini strettamente percettivi rileviamo che la linea di contorno ha due comportamenti fe­nomenici distinti sui suoi lati: il lato interno include, è concavo, soffice e cedevole; il lato esterno invece, dice Kòhler – uno dei padri della psicologia della gestalt – esclude, è con­vesso, duro e resistente. Dal momento che non si può separare il contorno dalla forma, né si può vedere una forma senza contorno, questo vuol dire che la forma è sia “il”, che “nel”, contorno che la racchiude. Rubin E., lo psicologo che ha studiato le condizioni che danno luogo a questo fondamentale fenomeno di segmentazione del campo visivo, denominato figura‑sfondo, ritiene che i fattori strutturali del fenomeno siano i seguenti: 1) la superficie racchiusa tende ad essere vista come figura, mentre lo spazio racchiudente tende ad apparire come sfondo; 2) le aree più piccole tendono a divenire figura; 3) la trama accresce la qualità di figura; 4) la simmetria, la convessità piuttosto che la concavità, l’orientamento, la posizione sono tutti elementi che tendono alla figura e non allo sfondo.
Si danno casi molto particolari in cui una singola linea presenta un doppio contorno; possiede cioè un contorno ambivalente che delimita contemporaneamente due figure distinte una confinante con l’altra. È questa una situazione particolare utilizzata dal pittore-incisore M. C. Escher e dal pittore surrealista R. Magritte, in molte delle loro opere. L’occhio in questo caso riesce a vedere soltanto ora l’una, ora l’altra, delle due figure, e mai entrambi contemporaneamente; perché di volta in volta una delle due deve regredire a funzione di sfondo, altrimenti nessuna delle due può essere percepita come figura singola. Le figure ambivalenti si condividono un singolo contorno; una singola linea si divide in due contorni distinti, delimitando e racchiudendo una figura alla sua destra, ora delimitando e racchiudendo un’altra figura alla sua sinistra, del tutto diversa dalla precedente per forme e per materia, per natura e per funzione.
Steinberg è pienamente consapevole che la pregnanza percettiva e la densità simbolica di ogni figurazione si situa proprio nel punto in cui la forma si separa dallo sfondo, per questo la punta del suo pennino lavora particolarmente proprio qui, nello spazio condiviso di questa incompossibile unità.
Questo lavoro sulla linea rappresenta il tratto più perspicuo dei disegni di Steinberg. In questi disegni le cose solide nello spazio si relazionano con-fondendo la contiguità con la continuità, la prossimità con la compenetrazione e la solidarietà con la fusione: ogni cosa non finisce più dove comincia l’altra, come ci si aspetterebbe che fosse, ma comincia e finisce in molteplici e imprevedibili punti, in tutti quelli che le momentanee contiguità ottiche chiamano in causa. Prendendo a prestito un concetto dello scrittore Octavio Paz possiamo dire che la linea di Steinberg è “equidistante dalla geometria e dallo schizzo – che sono il cielo e il sottosuolo del disegno”13, perché essa è una linea narrativa, una linea di pensiero.
La linea di Steinberg è una linea che segue le direzioni neglette e le impervie inclinazioni dei piani logici dell’ironia; essa più che un contorno che delimita è un filo che collega, più che chiudere apre, più che modellare attraversa, più che racchiudere tiene insieme e collega il materiale all’ideale, il concreto all’astratto, il convenzionale all’arbitrario, il generale al particolare, il razionale all’irrazionale, il sociale all’individuale. La sua linea contorna figure che abitano, vivono e si muovono nello spazio della retorica, nel quale gli elementi del linguaggio sono così affilati e così sottili da lasciar vedere in una linea di profilo, non la linea del profilo, ma il profilo della linea. Nel contorno delle forme visibili il profilo della linea disegna anche la forma delle idee dominanti della società a cui appartengono.
“Il mio è un lavoro che dice qualcosa su qualcosa d’altro; e se è pittura dice qualcosa sulla pittura, non sul fatto che questo è quello che è”14. La linea può disegnare tutto questo mondo irreale e ideale perché è essa stessa un’idea, è essa stessa un concetto visivo, un modello fatto di un nulla sensibile; perché essa è il solo elemento in grado di visualizzare sia le cose fisiche che meta-fisiche, sia visibili che invisibili, sia false che vere, e con-fonderle tra loro, allo scopo di destare e di scuotere l’occhio che le vede, costringendolo a rivedere e ad andare sempre al di là di ciò che esse gli mostrano nella loro apparenza.
 
La sottile esistenza delle cose
L’unico elemento che collega l’uomo al cane è una linea tratteggiata, il guinzaglio che fa da ponte tra la mano e il collare. Poi, a differenti altezze, immersi nel bianco due sguardi si inabissano nel vuoto, sospesi tra l’incredulità e lo sgomento; entrambi cercano un bersaglio, un ancoraggio, un riferimento: nei passanti, il cane; nel suo intorno, l’uomo. La loro presenza è più vedibile che visibile: due piccoli cerchi vuoti fungono da occhi, un breve segmento piegato ad angolo quasi retto li mantiene a distanza penzolando in giù a forma di naso, più in basso un breve tratto di linea orizzontale delinea la fessura fra due labbra. Altri due cerchietti allineati triangolano con un terzo cerchio nero, a cui si collega una delle due estremità di un trattino; l’altra si salda nel punto in cui un altro breve tratto orizzontale si piega leggermente per dare forma alle fauci serrate del cane. Tutto il resto manca. Le due figure descritte sono totalmente prive di corpo. Non abbiamo modo di vedere se il nostro signor S. è nudo o vestito, oppure se il suo cagnolino è tosato o maculato. Eppure il nostro occhio aggiunge tutto quello che manca, completa le figure conferendo una presenza meno eterea al loro corpo. Ci chiediamo chi ha disegnato questa scena, la mano del disegnatore o l’occhio dell’osservatore? La mano ha materialmente tracciato soltanto quei pochi ma fondamentali segni che per la loro giustapposizione ci permettono di leggere due occhi, un naso, una bocca, una mano. Per poter vedere, nel disegno descritto, un volto e quindi una figura di un uomo, quale parte del disegno è più importante quei pochi tratti che ci sono o tutti quelli che mancano?15
Proviamo ad immaginare come apparirebbe la stessa scena se si disegnasse in ogni suo dettaglio tutto quello che manca, che non è stato disegnato da Steinberg, e si omettessero soltanto gli occhi, la bocca e il naso dell’uomo e del cagnolino, nonché la mano e il guinzaglio. Di certo il disegno apparirebbe molto più dettagliato e finito. Ma questa completezza non lo renderebbe più chiaro, né più eloquente. Paradossalmente il disegno potrebbe perfino apparire più povero e più vago di quello di Steinberg. Per far diventare un disegno l’immagine di un volto è sufficiente far vedere la linea del suo sguardo.
La linea dello sguardo tiene appesi gli occhi alla luna. Questa linea, così ineludibilmente visibile nella sua direzione e nel suo verso, così tesa da sembrare perfino tangibile nella sua tensegralità16, congiunge alle sue estremità i due poli del campo magnetico della visione: l’occhio e la luna.
Non tutto, però, ciò che compone il disegno possiede la medesima chiarezza. Qualcosa sfugge alla nostra descrizione.
Infatti, nel punto in cui il disegno riproduce la linea dello sguardo non v’é alcuna traccia di inchiostro, non vi figura alcun tracciato grafico. Nel punto in cui si percepisce la direzione dello sguardo il foglio di carta è completamente bianco e vuoto. Eppure noi vediamo chiaramente le linee degli sguardi rappresentati. Ciò è reso possibile dal fatto che il disegno per poter riproduce in modo visibile una linea in se stessa invisibile, ricorre ad un segno ineffabile, ad una traccia non tracciata, ad una linea priva di forma, di colore e di materia; in breve disegna una linea così com’é nella sua vera natura. Il disegno qui riproduce esattamente e fedelmente, ma potremmo anche dire realisticamente, le proprietà essenziali ed effettive della linea: una semplice estensione unidimensionale. Steinberg con la linea dello sguardo dimostra che il disegno è in grado non solo di riprodurre in modo visibile ciò che è per natura invisibile, ma anche di riuscire a far vedere più di quanto vi sia materialmente disegnato, o tracciato nero su bianco.
Il disegno dunque è fatto anche di linee immateriali, di linee inesistenti, e pertanto, mai concretamente tracciate, ma che nonostante ciò esse non risultano meno visibili di quelle materialmente disegnate. Il disegno materializza ad un tempo una doppia possibilità di visualizzazione: così come è in grado di raffigurare con linee visibili enti e proprietà invisibili, allo stesso modo è in grado di raffigurare con linee invisibili fenomeni e cose ineludibilmente vedibili.
La considerazione è rilevante. Ci porta ad evincere che il disegno non si limita a mettere in scena spettacoli organizzati secondo le ben note geometrie della visione, che da Euclide a Mondrian, passando per L. B. Alberti e Monge, hanno consentito di codificare i diversi metodi di rappresentazione delle tre dimensioni dello spazio solido su di una superficie-supporto bidimensionale; ma costruisce perfino scenari che possono essere concepiti soltanto da una logica che fa capo ad una sorta di algebra della visione. La scena descritta sopra, infatti, sembra visualizzare una formula di tipo algebrico, dato che nel disegno la riproduzione di un ente fisicamente inesistente (un ni-ente, come può essere la linea dello sguardo), con un omologo ente graficamente inesistente (una linea che è l’equivalente di un ni-ente grafico) danno come risultato un ente visibile, si realizza così che da due meno si ottiene un più, che l’interazione di due non-enti, negativi perché invisibili, producono la visualizzazione di un esito positivo: l’elemento visibile. Nella linea che lega gli sguardi alla luna Steinberg appronta un disegno invisibile che riproduce uno spettacolo visibile.
Tra le forme di codificazione grafica della linea vi è quella della linea-oggetto: quando la forma, la lunghezza e la grandezza della sua traccia di inchiostro riproducono esattamente la forma, la lunghezza e la larghezza di un oggetto filiforme e sottile, appunto, lineare assimilabile nelle sue dimensioni ad una sorta di linea solida e tangibile, che la si può far scorrere fra le dita come si fa abitualmente con una corda, un nastrino, un filo di ferro o qualunque altra cosa simile. La linea di Steinberg, però, non si limita a riproporre questa forma di codificazione grafica ma compie un salto, uno spostamento linguistico e percettivo ad un tempo, simile alla sostituzione-inversione tra sostantivo e aggettivo nel linguaggio verbale: nel linguaggio grafico è abituale delimitare la superficie e i piani delle cose con una linea, accettiamo oramai come quasi naturale la delimitazione delle forme delle cose con delle pure linee e a vedere e identificare in una linea-oggetto la forma degli oggetti filiformi; è proprio questa consuetudine percettiva che Steinberg scardina, rovesciando il rapporto di subordinazione tra la cosa disegnata e il disegno come cosa, tra il disegno che riferisce iconicamente una cosa e il disegno che riferisce metalinguisticamente di se stesso: per il disegno che disegna se medesimo ogni linea oltre ad essere un segno grafico che visualizza un corpo sensibile, è anche un oggetto di per se stesso, che si può maneggiare allo stesso modo di come si afferra e si stringe tra le dita un oggetto filiforme. Per Steinberg se una singola linea può riprodurre un oggetto, visibile e tangibile, questo vuole dire che anche per il disegno la linea stessa è un oggetto che si può maneggiare e si può spostare da un posto ad un altro, o sovrapporre uno sopra l’altro, ecc.
Per Steinberg la parola scritta è un oggetto tanto quanto la forma visibile è un concetto, ragion per cui i suoi disegni travalicano gli argini che separano lo scrivere dal disegnare, il descrivere dal raccontare, aprendo uno spazio comunicativo più fluido e anche più originale e originario, prossimo alle forme aurorali del linguaggio grafico-visivo, al momento in cui l’immagine disegnata passa dalla rappresentazione di una forma iconica alla visualizzazione di un concetto, al momento in cui i pittogrammi abbandonano il loro referente ottico per cominciare a delineare le prime forme schematiche delle lettere, i primi segni grafici astratti della scrittura.
Pertanto anche le linee con cui tracciamo la forma delle lettere, con cui scriviamo queste stesse parole, non sono soltanto delle convenzione grafiche, ma essendo anch’esse dotate di proprietà sensibili, possono essere impiegate alla stessa stregua di qualunque altro oggetto fisico. Le lettere, dunque, possiedono una loro consistenza; possono essere dure o morbide, opache o trasparenti e pertanto si possono maneggiare concretamente. Steinberg solidifica e materializza il concetto linea, lo trasforma in un vero oggetto, in un oggetto-linea, anche se non rinuncia comunque all’altra dimensione, quella di oggetto mentale, come lo intendeva Alexius Meinong17. Trattare le lettere e i concetti come degli oggetti non è un semplice gioco grafico; poiché vuol dire considerare i concetti come dei manufatti della mente che si possono maneggiare e modificare fino a renderli più rispondenti alla proprie idee e quindi più corrispondenti alle proprie intenzioni comunicative. In breve vuol dire rendere consapevoli del peso che si assegna alle parole e a quanto esse riferiscono, vuol dire essere indotti a prendere coscienza del fatto che le parole, così come qualsiasi altra forma di linguaggio più in generale, possono essere usate come degli utensili, come degli attrezzi e come delle armi; per cui si possono impiegare tanto per un’azione costruttiva, tanto per un atto distruttivo. Steinberg è pienamente consapevole di questo e sceglie il linguaggio del disegno per comunicarle perché, come confessa egli stesso, “mi è più facile disegnare queste cose che spiegarle”18.
 
La tessitura dell’anima
La linea di contorno, figlia della frontalità del nostro sguardo, nella sua unilateralità non taglia fuori l’altra metà del mondo: ciò che ci appare visibile, perché posto davanti, è pur sempre in continuità con ciò che gli sta dietro. Dietro le apparenze, sotto ogni superficie, dentro la pelle, oltre le facciate ortogonali delle cose si nasconde la profondità e la massività dei corpi, e la distanza che li separa, isolandoli nello spazio. Ad ogni occhiata il mondo si ricompone; ad ogni minimo spostamento del nostro sguardo ogni singola cosa modifica il suo contorno: le parti che si sottraggono, si nascondono, svaniscono parzialmente da un lato e vengono contemporaneamente rimpiazzate da altre che emergono, affiorano dal lato opposto al primo, completando e mantenendo la continuità delle superfici. Dietro la parzialità di ogni proiezione ottica il mondo conserva la sua solidità e completezza. Il tratto che per convenzione è preposto alla traduzione grafica delle proprietà tattili delle superfici costituisce la terza tipologia, quella della linea-tessitura. Nel disegno la combinazione di una molteplicità di tratti lineari, variamente sovrapposti e addensati e/o rarefatti in modo più o meno graduale, ha il compito di descrivere le variazioni e le differenze morfotissurali delle superfici, i valori di grana che si avvertono attraverso i sensori tattili diffusi su tutta l’estensione della nostra pelle. Questo tipo di linea, descrittiva e illustrativa, viene utilizzata quando si vuole rendere conto delle proprietà materiche, relative alla densità e alla compattezza e al grado di levigatezza o rugosità della superficie di un corpo solido. Per lo psicologo americano J.J. Gibson le variazioni del gradiente di densità della tessitura costituiscono l’indizio percettivo più preciso e più efficace nella valutazione visiva dell’orientamento e della distanza degli oggetti nello spazio. Il trattamento grafico delle superfici, ai fini della resa chiaroscurale dei volumi e dei piani variamente illuminati rientra nella tipologia del segno-tessitura.
Nei suoi disegni Steinberg rovescia per cosi dire la funzione del segno tessitura, da tratto analitico e descrittivo delle superfici esterne dei corpi diviene eco dei tratti personali dei soggetti rappresentati. La linea tessitura viene utilizzata dall’autore per riferire all’esterno i tratti più reconditi di una personalità. Puntualmente E. H. Gombrich annota che Steinberg “nella sua Famiglia il padre è modellato solidamente, la madre con linee ondulate, la nonna sembra quasi svanire dietro ai tratti esitanti della penna e il figlio, naturalmente, è disegnato nello stile degli scarabocchi dei bambini”19.
Il tratteggio per Steinberg non è una tecnica semplicisticamente chiaroscurale ma più propriamente è una tecnica per tratteggiare il carattere, per mostrare all’esterno la superficie dell’anima del soggetto disegnato. Una conferma di questa intenzione introspettiva la troviamo nel titolo che lo stesso autore sceglie per la sua autobiografia, ossia nelle parole Riflessi e ombre, nelle quali è esplicito il riferimento alle immagini fluide e rivelatrici per eccellenza, nonché gravide di significati sociali e simbolici, ai quali rimanda esplicitamente nel testo lo stesso autore.
I riflessi e le ombre sono due particolari tipi di immagini naturali con cui la natura riproduce la forma e l’apparenze delle cose in modo spontaneo, mediante i fenomeni proiettivi della luce sulla materia. Queste due immagini rappresentano due aspetti e due proprietà in evidente contrasto: per un verso esse rappresentano quanto più di incorporeo, senza spessore, fluido ed evanescente ci possa essere, per un altro verso il procedimento ottico e proiettivo che le produce rappresenta il modo di riproduzione più fedele e più preciso, al punto da costituire per i maestri dell’antichità un esempio da imitare, perché ritenuto il più fedele al vero. Le due immagini rappresentano anche i due limiti del visibile; i due stremi dei fenomeni visibili: una acromatica, l’ombra, che si produce la dove la luce non può arrivare; l’altra, variopinta e policroma, si produce attraverso la restituzione massima della luce; una corrisponde al lato scuro del visibile e l’altra a quello luminoso; una attiene al regime notturno delle immagini e l’altra a quello diurno; una prossima alle profondità del nero (l’inchiostro della linea) e l’altra alla luminosità e chiarezza, splendore del bianco (il fondo bianco del foglio di carta): i due limiti del visibile; oltre lo splendore del bianco vi è soltanto l’abbaglio e oltre l’oscurità delle ombre vi sono soltanto le tenebre, ossia il bianco assoluto e il nero assoluto, che per estensione corrispondono ai due limiti del visibile, al bianco e al nero, entro i quali prende corpo il disegno. Le immagini disegnate da Steinberg sono riflessi e ombre dell’uomo moderno, della sua società; esse ne riproducono la loro verità perché situandosi una al di qua e l’altra al di là, attraversano il corpo che le proietta, rendendolo anche trasparente all’esterno. I riflessi e le ombre sono le immagini privilegiate attraverso cui Steinberg riesce leggere i significati delle azioni e dei comportamenti degli uomini che hanno inondato i loro occhi e le loro menti da modelli conformistici imposti da un perbenismo ottuso ed ipocrita.
E quando le linee oscillano e fluttuano, si sovrappongono e si elidono le une con le altre? Cosa succede in questo spazio intermedio, a chi appartiene alla forma contenuta al loro interno o allo sfondo che gli scorre sotto? Lo spazio fluido per definizione non appartiene né all’una né all’altro; esso rappresenta il luogo in cui una cosa trapassa nell’altra; è un luogo in via di definizione, né figura né sfondo, né chiaro né scuro; è lo spazio grigio delle sfumature sia ottiche, sia semantiche; appartenenti ad un’altra logica, definita logica funzy.
Le texturizzazioni e le sfumature nei disegni seguono la logica funzy della percezione, in cui ciò che è rilevante e pregnante è lo spazio intermedio, quello semanticamente grigio, ma aperto a tutte le possibilità proiettive, in cui ogni forma è un segno nel divenire del tempo creativo; in cui ogni minimo movimento può manifestarsi come un potenziale atto creativo e generativo; in cui ogni cosa è collegata a tutte le altre, a tutte quelle che l’uni-verso di una linea non può contenere, né delimitare, e dove ogni singolarità è il segno di una continuità con la molteplicità: un singolare plurale, un locale globale.
Il disegno sfumato, nel creare continuità tra le contiguità volumetriche, avvicina e confonde le cose cancellando lo sfondo, il deserto dello spazio visivo, che colloca ogni cosa in un vuoto di solitudine, e mette in continuità i pensieri con le cose, le cose con le idee, le forme con i concetti, la visione con la formazione.
Ma perché Steinberg si limita ad utilizzare quasi esclusivamente la linea?
Con i suoi metadisegni Steinberg ci fa prendere coscienza che in verità la linea non è una cosa, non ha una realtà fisica, né la si vede direttamente nelle cose o tra le cose; ma che essa è innanzitutto pensata prima ancora che veduta, essa è un oggetto mentale, che stabilisce non tanto una so­miglianza tra la cosa e la sua percezione, quanto piuttosto una continuità tra il segno disegnato e la cosa pensata. Per Steinberg la linea assomi­glia al pensiero più che alle cose, per questo i suoi disegni sono dei pensieri figurati, che attraverso l’ironia distillano dei ragionamenti e inducono alla presa di coscienza che le cose non sono unilaterali, non hanno un solo verso, non presentano una sola faccia, e non sono come le convenzioni dominanti ce le fanno apparire: il controsenso, il paradosso visivo, l’assurdo percettivo che questi disegni mettono sotto i nostri occhi altro non sono che riflessi della realtà; perché è la realtà stessa ad essere deformante, assurda e contraddittoria, e che soltanto se osservata attraverso le lenti correttive delle convenzioni e del conformismo visivo, morale e politico può essere vista come una realtà corretta, moralmente accettabile e coerente nelle sue strutture organizzative. “Io ho sempre pensato che per esprimere certe cose le dovevo trasformare in scherzi, in giochi di parole, o in stranezze comunque: il cosiddetto humour”20. Il disegno di Steinberg si pone come una lezione, ma non di disegno grafico ma di disegno del mondo, dell’idea che ci siamo fatti del mondo; che ci induce a riflettere su quale disegno-progetto della società siamo chiamati a partecipare; di quale disegno siamo la mano esecutrice e di quale siamo l’occhio fruitore. Oggi più che mai occorre tener presente che ogni segno tracciato sulla superficie del mondo può essere letto come un atto di dominio, di sopruso, di divisione... ma può anche essere letto con un segno opposto di condivisione, di unificazione, di contiguità: Steinberg ci insegna che la visione del significato di un segno dipende dalla visione che abbiamo del mondo.
Del resto, come fa notare il filosofo francese Jacques Derrida, è risaputo che al disegno è connaturata una incipiente e perspicua vocazione didattica: l’atto stesso del disegnare implica sempre un segnare ed un in-segnare. I valori morali, le credenze, i sentimenti e le condizioni della mentalità degli uomini di ogni tempo si riflettono nella linea del loro stile, in un modo così evidente da poterla leggere così come si legge negli occhi, scrive Henry van de Velde, l’architetto teorico dell’Art Nouveau, in un articolo apparso nel 1902, significativamente intitolato La linea è una forza. “La Linea è più parlante della parola scritta… Il più impercettibile slancio, la più lieve flessione, il più sottile cambiamento di ritmo, la più trascurabile variazione nei rapporti d’intervallo e di distanza degli accenti corrispondono a cause che sono in stretto rapporto con la mentalità e la psicologia particolari di ogni popolo. Ogni grande periodo storico ha la sua Linea sintetica”21.
Lo scrittore-educatore E. Abbott, nella sua Flatlandia, ci ricorda che per le autorità dominanti il momento in cui gli esseri unidimensionali pensano e si prefigurano come potrebbe essere la visione degli oggetti tridimensionali, viene vissuto come un atto sovversivo e rivoluzionario. La visione sottintende una ideologia del mondo: la visione del mondo implica sempre una weltanschauung: una visione del mondo, un disegno del mondo, del suo ordine, delle sue relazioni, delle sue istituzioni, dei suoi principi. Nelle linee visibili di ogni disegno troviamo inscritta, celata, l’immagine diciamo così spirituale e invisibile del mondo che esse riproducono visibilmente: ogni disegno traccia dentro il nero della linea di contorno di una forma visibile una corrispondente forma simbolica del mondo a cui appartengono.
 
In M. Belpoliti, G. Ricuperati, Saul Steinberg, “Riga”, 24, Marcos y Marcos, Milano 2005, pp. 357-376.
 
 
1 Il testo da cui abbiamo tratto le immagini è: Steinberg. Passaporto; Mondadori Electa, Milano 2002.
2 Jean-François Lyotard, Si direbbe che una linea... in Valerio Adami, Disegno & confessioni; Scritti di I. Calvino, J.F. Lyotard, O. Paz, A. Tabucchi; Pagine d’Arte, Bellinzona 2004; pag. 72
3 Edwin A. Abbott, Flatlandia. Racconto fantastico più dimensioni; Adelphi Milano 1966
4 Riprendiamo la classica tripartizione operata da Arnheim R., Arte e percezione visiva, Feltrinelli, Milano, 1981, p. 188; ripresa e ampliata da Massironi M., Vedere con il disegno, Muzzio, Padova, 1982, p. 10 e seg.; Pierantoni R., Forma Fluens, Boringhieri, Torino, 1986, p. 46 e seg.; ma il testo che analizza in modo specifico la complessità della figurazione al tratto è quello di Kennedy J.M., La percezione pittorica, Cortina, Padova, 1988.
5 Per un’analisi fenomenologica delle molteplici funzioni linguistiche che la linea svolge nel disegno ci permettiamo di rimandare al nostro testo G. Di Napoli, Disegnare e conoscere, Einaudi Torino, 2004.
6 Saul Steinberg, Riflessi e ombre, Adelphi, Milano 2001, p. 58
7 Jean-François Lyotard, Si direbbe che una linea..., cit., p. 47
8 M. Merleau-Ponty, È possibile oggi la filosofia? Lezioni al Collège de France 1958-1959 e 1960-1961, Cortina, Milano ?, p. 159, nota 41.
9 E. H. Gombrich, L’arguzia di Saul Steinberg; «Argomenti del nostro tempo. Cultura e arte nel XX° secolo»; Einaudi, Torino 1994; p. 218.
10 Cit. da E. H. Gombrich, L’arguzia di Saul Steinberg; cit., p. 222
11 cit. in: Ernst H. Gombrich, L’arguzia di Saul Steinberg; cit., p. 219
12 cit. in: Ernst H. Gombrich, L’arguzia di Saul Steinberg; cit., p. 219
13 Octavio Paz, La linea narrativa in Valerio Adami, Disegno & confessioni; cit., p. 87.
14 Saul Steinberg, Riflessi e ombre, cit. p. 59.
15 Per un disegno, come per un essere vivente, quali sono le linee più importanti, più vere, più vitali? Quelle iconiche e visibili che riproducono le sembianze e duplicano le apparenze o quelle invisibili delle strutture interne, delle tensioni e delle forze di una forma, dei vettori di crescita delle piante, delle rotte migratorie incise nella memoria biologica dei pesci e degli uccelli?
16 Prendiamo a prestito il concetto di tensegralità elaborato dall’architetto R. Buckminster Fuller all’interno della sua geometria energetica e sinergetica, con il quale egli intendeva descrivere una particolare forma di integrità tensoriale che si viene a creare in ogni linea di una struttura geodetica.
17 Meinong A., Teoria dell’oggetto; Quodlibet, Macerata 2003
18 Steinberg Saul, Riflessi e ombre; op. cit. pag. 62
19 Ernst H. Gombrich, L’arguzia di Saul Steinberg; op. cit. pag. 222
20 Steinberg Saul, Riflessi e ombre, op. cit. pag. 67
21 Van de Velde H.; La linea è una forza; in: Formule. Della bellezza architettonica moderna; Zanichelli, Bologna 1981, pag. 114
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