Riga n.
Alberto Arbasino
Marco Belpoliti
Faccia

Masquerade
Una serie di fogli di carta appesi al muro con il nastro adesivo. Sono facce, la medesima faccia, quella di Saul Steinberg. Ha i baffi e gli occhiali. In alcuni casi gli occhi sono disegnati, a volte al loro posto c’è invece un buco. In mezzo ai fogli, per lo più di forma ovale, ci sono anche alcuni ritratti di gatto. In uno dei ritratti “umani” è avvenuto uno scambio: vibrisse al posto dei baffi. È Steinberg stesso che assume la forma di un felino? Forse. O piuttosto il felino è un altro sé, la natura animale che lo accompagna? Sono volti, facies, figure; ma anche cose “fatte”, o, con un significato ancora in uso nella prima metà del XII secolo nella lingua italiana, “pagine di un libro”. Ogni volta che Steinberg disegna, scrive su una superficie che è necessariamente un foglio, una “faccia”. 
   Negli anni tra il 1959 e il 1963 l’artista ha collaborato con una fotografa, Inge Morath. Steinberg disegna su sacchetti di carta delle facce, poi li fa indossare come maschere a dei modelli, forse degli amici, quindi Inge li fotografa. Il primo ritratto è il suo. Indossa una maschera, o faccia, sulla sua vera faccia. Il foglio di carta ovale ha un buco da cui spunta un naso di carne. Qual è la faccia, la facies, di Saul Steinberg? Quella che c’è davanti: il piccolo ovale dove si scorgono un paio d’occhi, l’occhiale stilizzato, la bocca – solo una linea orizzontale – e il naso? Oppure la faccia è quella che c’è dietro alla protesi degli occhiali? Degli occhi di Steinberg, che tanto hanno colpito i suoi amici, e di cui Tullio Pericoli ci ha dato un fulminante ed essenziale ritratto, se ne vede uno solo, quello sinistro, che guarda dritto verso l’obiettivo di Inge Morath. Ci traguarda, ci scruta, ci ammonisce.
Nella conversazione televisiva con Sergio Zavoli del 1967, Steinberg spiega la sua teoria del naso. L’artista sostiene che il naso è la parte più antica dell’uomo, la più originale e privata. Mostra a Zavoli come realizza una maschera. Piega dei fogli, li taglia, poi usa le forbici per fare il buco nel foglio, lo disegna, infine lo indossa. Mentre fa tutto questo, continua a parlare; spiega che, mentre gli occhi e la bocca sono “elementi politici della faccia”, il naso ne è l’antenato. Nelle sue maschere, quelle che lo identificano, il naso è la cosa più importante. Così facendo, agendo con forbici e matita, dice al suo intervistatore che con questa maschera e con il naso di carne che buca il foglio, lui ha ridotto la faccia a una specie di essenza totemica di se stesso, “tralasciando il resto che è tutta roba fisiologica”. Zavoli gli chiede: qual è il senso filosofico di questo esperimento? “È una stenografia della faccia. Il risultato, l’identificazione della faccia, il suo totem”, risponde l’artista. Steinberg costruttore di totem?
    Georg Groddeck, il medico, “analista selvaggio”, amico e suggeritore di Freud, l’avrebbe approvato. Il naso è la parte del corpo umano che si forma per prima nell’utero materno; ed è collegata con la parte più primitiva del nostro cervello, nonché con il sesso, come sosteneva Groddeck: la nostra identità segreta è scritta nel naso e nello stesso tempo nel nostro sesso. Ma mentre celiamo l’uno, il sesso, mostriamo, più o meno impudicamente l’altro, il naso, come accade nella foto di Inge Morath che ritrae Steinberg. 
   Questa immagine suggerisce una doppia lettura dei ritratti in maschera raccolti nel libro Masquerade. La testa degli uomini e delle donne è di carta. È un disegno. Sotto c’è il corpo. Il disegno è virtuale e il corpo reale? A un primo sguardo si è portati a crederlo. Il disegno ha qualcosa di artificiale, di artefatto. Si tratta di una maschera totemica, nel senso indicato da Steinberg stesso nella sua conversazione. È il ritratto di un animale, non solo di un essere umano, individuato da un segno geometrico, come nel caso dei ritratti delle donne sedute o come nel triplo ritratto in piedi, vicino alla porta d’ingresso: un uomo e due donne. I loro occhi sono rombi, esagoni, spirali, e il naso una freccia che scende verso il basso. Possiedono la geometria essenziale del mondo minerale, ma anche grafica degli insetti. Sono decorazioni totemiche, segni primitivi, tracciati da nativi americani o aborigeni australiani, somigliano ai graffiti delle caverne. Appartengono al regno degli insetti. Gli uomini e le donne ritratti da Inge Morath richiamo alla mente la mantide religiosa di Roger Caillois. Esprimono con la loro maschera l’essenzialità del carattere: un misto di crudeltà impassibilità e stupore. Le linee che corrono su alcuni volti sono rughe, segni, feritoie scavate non dal tempo, ma dalla mano dell’artista. Le maschere sono caratteri, sono la vera faccia di chi c’è sotto. Il disegno è la loro vera faccia. 




Superfici
Ci voleva un uomo proveniente dal Vecchio mondo, da un angolo remoto dell’Europa, un immigrato, un rifugiato, un ebreo, per capire l’America, per comprendere che la sua vera essenza è la rappresentazione. Saul Steinberg non è solo un disegnatore, un grande disegnatore, cioè un artista scandalosamente escluso dalle storie dell’arte, ma anche uno scrittore, proprio come lui stesso aveva immaginato da ragazzo: uno che scrive e racconta con la linea, con il tratto di penna, con la china e gli stampini, le forbici e i fogli di carta. 
    Saul Steinberg è il narratore dell’immensa superficie americana e, nel medesimo tempo, di ciò che, dall’inizio degli anni Quaranta del XX secolo, è diventato il nostro destino di europei. L’Europa ha inventato la coscienza, l’ha difesa e promossa per sette secoli almeno, ne ha fatto la fonte della propria identità e il principio di libertà – il foro interiore –, ma anche il pozzo dove nascondere tutti i propri recessi, fino a che un dottore di Vienna non si è deciso a bonificare quel gran lago melmoso trasformandolo in una soleggiata pianura. Da quel momento, e sono passati più cento anni, la psicoanalisi ha preteso di rivelarci l’inconscio; forse per questo l’Io è emigrato nel Nuovo mondo, per vivervi una nuova vita, per distendersi nella sua giusta dimensione: la superficie.
     Saul Steinberg è lo straordinario narratore dell’immensa superficie dell’Io, ovvero della sua continua e inesausta rappresentazione. Nella sua involontaria autobiografia che l’amico fraterno Aldo Buzzi, a sua volta eccentrico e curioso scrittore, gli ha costruito selezionando dal loro epistolario missive spedite tra il 1945 e il 1999, non c’è una sola parola che faccia presupporre l’esistenza di una qualche interiorità. La profondità di Steinberg è tutta nella superficie dei suoi graffiti e delle sue parole: scorre con grande efficacia senza che mai l’Io che scrive abbandoni la propria maschera: amico, confidente, artista, gourmet, ecc. Non c’è niente di profondo, neppure nel genio comico di autore di scarabocchi che Charles Simic gli ha giustamente attribuito. Anzi, è proprio la comicità a funzionare come superficie. Ma Steinberg ha un inconscio? Certo. È la linea ritorta, la linea che si avvolge su se stessa, che s’annoda, s’allaccia, fa volute e s’allarga, fino a definire in modo esatto, ma insieme aleatorio (è pur sempre una riga), tutte le cose: è la sostanza del mondo, come è stato giustamente scritto. Oltre alla linea non c’è nulla; tutto il resto è un problema di percezione, ovvero di scambi significativi tra il soggetto senziente (e pensante) e il mondo a cui, in fin dei conti, la linea appartiene, quando non ne è poi che la vera essenza.






La vita quotidiana come rappresentazione
Tra i tanti nomi – spesso scrittori – citati da Steinberg nella sua fitta corrispondenza con Buzzi non c’è quello di Erving Goffman. Peccato che non si siano conosciuti, visto che avevano molte cose in comune; forse si sono solo letti a vicenda; probabile che Goffman abbia guardato i disegni di Steinberg sul “New Yorker”, rivista che non poteva non conoscere, curioso come era. Entrambi sono degli immigrati. Goffman, nato in Canada nel 1922 – Steinberg è nato in Romania nel 1914 – è figlio di una famiglia di migranti russi proveniente dell’Ucraina, arrivata nel paese nordamericano all’inizio del XX secolo. Goffman, ebreo, voleva dedicarsi al cinema, arte narrativa per eccellenza, poi, negli anni trenta, mentre Steinberg studia architettura in Italia, s’iscrive a sociologia a Chicago. Entrambi si sono occupati, per gran parte della loro vita, del problema della rappresentazione. I titoli di due libri di Goffman posso valere come efficaci compendi dell’opera di Steinberg: La vita quotidiana come rappresentazione e Il comportamento in pubblico.
C’è anche un altro aspetto, al limite dell’aneddoto, che li definisce e che riguarda la loro capacità d’osservazione. Steinberg, come raccontano gli suoi amici, ha ottenuto la cittadinanza americana grazie alle sue capacità di disegnatore e per i buoni uffici del direttore del “New Yorker”. Una volta diventato americano, nel bel mezzo della guerra mondiale, il profugo romeno è arruolato nell’esercito americano e aggregato a un improbabile servizio meteorologico. Armato del suo taccuino e della matita gira i vari scenari di guerra. In realtà Steinberg lavora per i servizi di informazione, in veste di “osservatore visivo” –  alcuni di quei disegni sono stati compresi nel primo libro, All in Line: Cina, Italia, Sumatra, Calcutta. Svolge anche il compito di collegamento con i combattenti cinesi: lui che non sa ancora l’inglese, disegna per farsi capire; è la lingua internazionale del segno. 
   Goffman, invece, per poter portare a termine la propria tesi di laurea, s’infila in un albergo delle isole Shetland dove studia la comunità locale. Si finge un agronomo, e si appropria con rapidità della comunicazione segreta che vige nell’edificio, nei “retroscena” dell’albergo, dove lavora e vive il personale di servizio. Studia di nascosto anche un ospedale psichiatrico, il St Elisabeth di Washington, dove nel 1955 per diciotto mesi prende appunti, registra conversazioni, s’aggira per gli interstizi dell’istituzione totale carpendo i piccoli e grandi segreti di infermieri, degenti, internati, medici, parenti. Lo interessa la rappresentazione della vita che si svolge in quei luoghi, le maschere che tutti indossano, ovvero i ruoli che ciascuno assume. Il soprannome che gli affibbiano gli altri studenti all’università di  Chicago è: stiletto; lo stile è il suo stigma, ma anche il centro della sua ricerca.  
    Goffman, come hanno fatto rivelare gli studiosi, possiede una spiccata vena satirica; del resto è affascinato dagli stratagemmi e dalle abilità specialistiche degli individui; il suo universo, quello che descrive nei suoi libri, è una sorta di specchio che riflette in forma caricaturale gli atteggiamenti del mondo. E’ un moralista, e insieme un perfetto cinico attratto dai soccombenti, dalle forme che assume il Self degli sconfitti in situazioni estreme: l’ultima spiaggia. 
        Il medesimo sguardo impietoso Steinberg lo rivolge alla società americana, non tanto per sferzarne la sua immoralità, o il suo presunto vuoto, bensì per evidenziare la funzione essenziale che vi svolgono i ruoli sociali, le maschere che gli individui indossano per poter reggere il confronto in una società estremamente competitiva. I ritratti di donne e uomini pubblicati in Passport, il suo libro sull’identità, sono lampanti. Il mondo è per lui dominato da fitti cerimoniali;  le sue coppie, le sfilate, i gruppi famigliari, le genealogie fotografiche, hanno un unico motivo ispiratore: gli sforzi intrapresi dai singoli per salire nella scala sociale o almeno per evitare di scendere: “sono espressione di sacrifici fatti per il mantenimento della facciata” (Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione).
     L’interesse che Steinberg coltiva per le facciate dei grattacieli, che lo spinge a trasformare la carta millimetrata in uno schema architettonico, trae ispirazione dal medesimo atteggiamento: le facciate sono le maschere degli edifici. Il piacere infantile che si prova a ripercorrere con l’occhio le minuziose descrizioni dei palazzi di Steinberg ha origine proprio in questa accuratezza nel ritrarre le grandi maschere architettoniche della società americana che s’addensano a New York, luogo dove il disegnatore romeno ha scelto di vivere: la facciata-faccia.
   La libertà degli individui consiste, sia per Steinberg sia per Goffman, nella possibilità di scelta della propria faccia. Streinberg ci mostra un aspetto che Goffman, con i suoi strumenti, ha messo bene in luce: la necessità di sottoporre a un controllo rigoroso di conformità, convenienza, correttezza e decoro le rappresentazioni profane della vita quotidiana. Di questa verifica, sottoposta all’occhio invisibile dell’autorità – introiettata da molti se non da tutti – Steinberg ci mostra un altro aspetto, quello della deferenza, mentre ne nasconde quello che più lo ferisce, e forse atterrisce, la vergogna. 
    L’artificialità è il fulcro della vita americana descritta da Goffman, ma anche da Steinberg. La vita è una recita, come è scritto icasticamente in un passo della Vita quotidiana come rappresentazione. Osservando di nascosto i camerieri dell’albergo delle isole Shetland, dove alloggia, Goffman ha imparato che ogni individuo gioca con la sua condizione per “realizzarla”. Siamo, scrive, tutti commercianti: recitiamo la cerimonia della vendita o dell’acquisto; anzi, quando il droghiere e il sarto non recitano il loro ruolo, ci risultano incongrui, persino offensivi. La cortesia arriva fino al punto da imporre i ruoli come “fatti” già scritti, alla stregua di spartiti da recitare ogni volta da capo. Un droghiere che sogna non è un droghiere, ci dice Goffman. Steinberg s’appassiona invece ai possibili rovesciamenti, è attratto dai droghieri che sognano, dalla loro mediocrità. 
    Tra le formule più celebri di Goffman c’è quella del “retroscena”; con questo termine indica i luoghi sottratti allo sguardo dell’osservatore – le cucine, il ripostiglio gli i bagni –, in cui gli uomini e le donne possono per qualche tempo togliersi la maschera. Il loro sforzo è di mantenere il controllo del retroscena, come forma di difesa “dalle esigenze deterministiche che li circondano”. Al contrario, lo sguardo indagatore – scopofilo, persino – di Steinberg raggiunge anche i retroscena, li scandaglia con feroce costanza, così che per l’homo americanus che ci descrive con il suo tratto non esiste uno spazio neutrale: la maschera è l’eterna identità dell’uomo solo, che può al massimo sfilarsi un naso, allontanarlo da sé con un gesto, come in un celebre disegno ma alla fine dovrà rimetterselo, perché non ne può fare senza. 
   La recita del ruolo continua anche nello spazio privato; anzi, per Steinberg, non esiste più alcuna differenza tra privato e pubblico. Se per Goffman “fare è essere”, per Steinberg anche “essere è fare”. Non si sfugge in alcun modo a questo paradosso della normalità. E non è neppure un caso che l’osservazione prolungata dei suoi disegni, la lettura di un suo libro, provoca un senso di soffocamento: non c’è scampo. La linea di Steinberg assedia e definisce anche gli spazi minimi dell’esistenza, quelli che si è soliti indicare con il termine “interstizi”, spazi che si ritengono sottratti al ritmo inglobante della vita quotidiana; tuttavia anche negli interstizi ci mostra impietoso il disegno di Steinberg, indossiamo una maschera, impersoniamo un ruolo. Per Steinberg non c’è via d’uscita o alternativa possibile: la recita è totale. Questo è esattamente l’effetto di superficie dei suoi disegni. L’interazione sociale riguarda i luoghi pubblici e gli spazi d’incontro, le rappresentazioni teatrali e le conversazioni, il vendere e il comprare, il guidare l’auto e il fare all’amore. In una serie di disegni, all’apparenza pudichi, in realtà carichi di un inquietante erotismo, intitolati Hotel Plaka, Steinberg ha descritto l’incontro di figure geometriche, segni diacritici, lettere dell’alfabeto: nel letto un triangolo e un punto interrogativo amoreggiano, parlano; è un sovrapporsi nervoso dei loro dicorsi chiusi in una nuvoletta. Sono immagini di una rappresentazione, o meglio un’ “interazione sociale”, come la chiama Goffman. Tutta l’arte di Steinberg ci fa capire che l’interazione comincia non dal due, ma dall’uno: anche da soli, si è sempre in due: l’Io e il Sé. La sua abilità consiste proprio in questa messa in scena del rapporto tra l’Io e il Sé che è la base della nostra socialità. 




Giochi di faccia
La faccia è l’immagine  che vogliamo dare di noi stessi, un’immagine a cui siamo molto affezionati. I due personaggi sono seduti in salotto. Lei su una poltrona, lui è appoggiato al bracciolo del divano. Sono messi di traverso; la figura maschile, in abito scuro, cravatta e fazzoletto bianco nel taschino, risulta più avanti della figura femminile. Lei fuma o ha appena fumato: regge una sigaretta infilata in un bocchino. Lui invece le passa la mano dietro la schiena, mentre l’altra è appoggiata sulle gambe accavallate. Insieme ispirano pacatezza, adesione, decoro. La stanza è arredata con gusto newyorkese anni sessanta. I volti: gli occhi di lei si chiudono a spirale con volute rettilinee, la bocca è grande, girata all’ingiù. Lui ha il viso scavato, ma non troppo, da lunghe rughe verticali; sulla fronte l’andamento dei segni è orizzontale con due solchi in corrispondenza del naso; gli occhi grandi, spessi come lenti: occhiali senza vetro. Sono maschere di carta. La loro faccia, per dirla con Goffman, ha un valore sociale positivo.
       Dopo un po’ che guardiamo le maschere disegnate da Steinberg, ci rendiamo conto che una regola precisa domina i volti dei suoi personaggi: la regola di gruppo, ovvero la regola di situazione. La faccia non fa parte del corpo del personaggio, è invece l’effetto di una serie imponderabile di eventi accaduti prima, e che accadranno poi: precedono e seguono l’incontro con l’obiettivo della fotografa. Steinberg ha seguito delle convenzioni sociali, quasi avesse solo un numero limitato di possibilità a disposizione, una serie finita di immagini da riprodurre. La variazione è uno dei suoi strumenti preferiti: rifà gli stessi disegni cambiando poco o nulla, e non è mai lo stesso disegno, come ogni incontro, con la stessa persona o con altre, non è mai lo tesso incontro: il ripetersi della vita e il suo variare sono le ascisse e le ordinate dell’universo chiuso di Saul Steinberg.
    Nessuno dei suoi personaggi ha mai una faccia fuori posto. Ciascuno ha assunto la propria faccia, quella che gli è concessa dal gruppo di appartenenza, dalla sua storia, dal grado e dal livello di socialità a cui aspira, o che riesce a realizzare. Non può certo perdere la faccia; anzi, ogni volta, col disegno, la guadagna. Ogni volta che assumiamo una faccia – e tutti abbiamo una faccia –, sembra dirci Steinberg, diventiamo inevitabilmente i carcerieri di noi stessi. Ognuno dei personaggi dell’artista, maschere o disegni che sia, ama la propria faccia, ama la propria cella. Goffman, che ha studiato i giochi di faccia, ha concluso che ciascuno di noi rende le proprie azioni coerenti con la faccia; ovvero, cerca di impedire tutti quegli incidenti che minano la compostezza della faccia, scongiurando l’imbarazzo che la sua eventuale perdita potrebbe provocare in se stesso e negli altri. Steinberg ha descritto in modo perfetto le strategie attraverso di cui le persone evitano di perdere la faccia, perciò la stabilizzano, la creano in modo definitivo: allegria, consolazione, stima di sé, sicurezza, vacuità, dolore, tetraggine, malinconia, perplessità. Ogni faccia è un modo per concedere a se stessi la propria faccia, per renderla coerente. 
    Ma c’è faccia e faccia. Sul tavolo tondeggiante della stanza è appoggiata la faccia dell’artista. Reclinata, vicino alle saliere, alla tazzina con le zollette di zucchero, a tre portacenere e a un piatto, ai quaderni e infine una tovaglia. Sullo sfondo una porta-finestra socchiusa e una donna che sta pulendo la soglia. La stanza è in penombra: scura fuori, luminosa dentro; la luce della lampada batte sul tavolo. La fonte luminosa è fuori campo, sul tavolo c’è solo il suo effetto. Per questo, metà del sacchetto con la faccia di Steinberg è in ombra, non lo si vede bene. È ancora una faccia o è invece tornato a essere solo un sacchetto di carta?


In M. Belpoliti, G. Ricuperati, Saul Steinberg, “Riga”, 24, Marcos y Marcos, Milano 2005, pp. 347-356.
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