Riga n.
Alberto Arbasino
Stefano Bartezzaghi
Steinberg, talkboy/thinkboy

0. Premessa


Per chi si occupa dei giochi delle parole - i giochi che le parole fanno con noi, e spesso alle nostre spalle - non è detto che la principale lezione venga dai testi saggistici che costituiscono la piccola, ed enorme, bibliografia sull'argomento. Il Witz di Freud, i saggi di Jakobson su linguistica e poetica e sulla magia dei suoni della lingua, quelli di Paolo Valesio sull'allitterazione e sulla paronomasia, gli stessi manuali di enigmistica e le opere di Giampaolo Dossena hanno certo un'importanza non trascurabile, ma la materia pare resistere a qualsiasi tentativo teorico e sistematico, a partire dalla sua stessa definizione. Cos'è un "gioco di parole"? Spesso si finisce per perdersi in strategie preposizionali, distinguendo il gioco di parole dal gioco con le parole: ma le strette maglie della teoria non imbrigliano l'energia centrifuga di ciò che si può definire soltanto come un'attività linguistica, a volte scritta a volte orale, in cui alle regole sintattiche e semantiche della costruzione del discorso si sostituiscono principi alternativi, e non codificati.
I vantaggi assicurati da questo stato di fatto sono superiori agli svantaggi. Il vantaggio principale è l'assenza di sedi privilegiate per lo studio della materia, e dunque l'opportunità di approfondirlo in occasioni impensate, e ufficialmente deputate ad altro.


1. Anno accademico 1986-1987
Una delle più memorabili lezioni sul gioco di parole personalmente l'ho ricevuta a Bologna, in un seminario di Umberto Eco, nella primavera del 1987 (aula A, Istituto della Comunicazione e dello Spettacolo, via Guerrazzi). Il corso di semiotica di Eco proponeva ogni settimana, oltre a un certo numero di seminari tenuti dai ricercatori dell'Istituto, tre lezioni di due ore l'una. La lezione del giovedì era dedicata agli studenti che incontravano la semiotica per il primo anno. La lezione del venerdì agli studenti più avanzati. Il sabato si svolgeva un seminario detto "laureandi". La partecipazione era libera, e così come studenti già laureati seguivano il corso del giovedì, matricole e laureati si incontravano al sabato, a diversi livelli di adesione e di spiazzamento. Semplicemente, il giovedì si spiegava ogni termine tecnico; il venerdì venivano spiegati solo quelli più ardui; il sabato non ne veniva spiegato nessuno, e veniva data per scontata la preparazione di base.
Quell'anno Eco teneva un corso su "Aspetti della semiosi ermetica": come avremmo saputo l'anno successivo stava scrivendo un romanzo su questo argomento (Il Pendolo di Foucault, Bompiani 1988) e usava i materiali teorici del romanzo anche per il corso universitario: studi sulla cabala e sull'alchimia, confutazioni della decostruzione, strutture del pensiero dei Rosa-Croce, il pensiero ermetico e le teorie del complotto. Nei momenti di maggiore relax Eco usava chiamare tutto questo aggregato con l'affettuoso insulto di "pensiero pirla": ma il problema teorico che ci stava sotto era uno dei nodi principali per la sua concezione della semiotica, e infatti il romanzo che ne è sortito è senz'altro il più teorico (molto più che Il nome della rosa) fra quelli orditi dal semiologo. Il punto è questo: se la cultura di un'epoca, l'organizzazione dei significati, in una parola la sua enciclopedia, è una struttura rizomatica, in cui ogni punto può essere collegato con ogni altro punto, cosa consente alla deriva interpretativa di non deragliare, proponendo interpretazioni aberranti? Cosa distingue la "semiosi illimitata" di cui parlava Charles S. Pierce dalle segnature e dal cosmo interdipendente della magia rinascimentale?  Questo nodo teorico ha occupato il pensiero di Eco dalle prime teorizzazioni dell'opera aperta (pubblicate nel 1962) alle conclusioni tratte con I limiti dell'interpretazione (Bompiani 1990), in quella che lettori un po' maliziosi e molto svogliati hanno riassunto come una "chiusura" dell'opera effettuata dai "limiti dell'interpretazione". Ma questo non interessa, qui: a me interessa che per queste ragioni teoriche sia lo studioso sia il saggista sia il romanziere sia il giocatore di parole-Eco risultino tutti e quattro affascinati dal concetto di "catena". Concatenazioni di frasi e di concetti si incontrano in ogni parte dell'opera di Eco, dalla "grande catena dell'essere" teorizzata da Lovejoy che Eco usa per sistemare teoricamente gli alberi tassonomici del neoplatonismo, alle "fughe degli interpretanti" riprese da Peirce, a più modesti (e più divertenti) giochi concettuali o enigmistici in cui una frase tira l'altra con effetti di ironia e di grottesco. Dalle catene inferenziali del ragionamento logico fino a giochi simili al "Bersaglio" della Settimana Enigmistica o a quei doublets (in italiano, "doppietti" o "metagrammi") che Lewis Carroll inventò nel 1878 per allietare il Natale di due giovani sorelle sue amiche, una delle quali diventerà poi la madre di Aldous e Julien Huxley. Il gioco richiede di passare da una parola all'altra, cambiando ogni volta una sola lettera e ottenendo a ogni passaggio una parola di senso compiuto (head-tail: head, heal, teal, tell, tall, tail; in italiano: capo-coda: capo, caso, casa, cosa, coda).






2. the New Yorker, Oct. 18, 1969 (Price 50 cents)




In uno di quei sabati della primavera del 1987, mentre l'anno accademico e il romanzo di Eco andavano verso i loro naturali approdi, Eco si presentò al seminario del sabato con una vecchia copia del New Yorker. Fortunatamente non usavano ancora molto le lavagne luminose, perché così fu costretto a fotocopiare la copertina della rivista per tutti i presenti al seminario, e quella fotocopia, già sbiadita all'origine, l'ho attualmente sul tavolo, essendo sempre riemersa dalle tempeste di parecchi traslochi e capziosi tentativi di archiviazione.
È una delle celebri copertine di Saul Steinberg, e propone un tema su cui lo stesso Steinberg avrebbe elaborato delle variazioni. Come in altre sue illustrazioni quel che si vede è un omino che nella mia fotocopia in bianco e nero appare come una nube di pulviscolo, un aggregato di atomi puntiformi che ha un contorno ma non ha tratti. L'omino sta di fronte a un quadro, un Braque del periodo cubista.
Ma l'immagine del quadro e del suo osservatore compare in una piccola parte dell'illustrazione: l'estensione della quale è occupata pressoché per intero, fino a lambire la testata del settimanale, da un vasto fumetto. Il fumetto esce dalla testa del personaggio non con la caratteristica freccia che, nella convenzione del genere, significa "discorso pronunciato" ma con le tre bollicine che indicano il pensiero muto, ovvero il flusso di coscienza o monologo interiore. Questo monologo non prende la forma sintattica di un discorso: è un elenco, una catena di lemmi che il personaggio costruisce a partire dallo stimolo del quadro. 
L'esercizio che Eco proponeva ai partecipanti al seminario, e a se stesso fra loro, era quello di ricostruire le motivazioni di ogni passaggio: in quale senso ogni termine è un "interpretante" di quello successivo? Che legame sintattico o semantico costituisce il ponte su cui transita il pensiero dell'osservatore del quadro?
Ho conservato la fotocopia ma non gli appunti di quella lezione. Ricordo che Eco in un primo momento avrebbe desiderato far rientrare ogni passaggio in una delle due categorie di metafora e di metonimia, come le intendeva Roman Jakobson (e come Jacques Lacan le applicava allo schema freudiano condensazione/spostamento). In realtà queste categorie si rivelarono insufficienti, e necessitavano di specificazioni ulteriori; oltretutto i salti mentali del personaggio non erano tutti perspicui, per noi, poiché non ne condividevamo interamente l'enciclopedia soggiacente. Per fortuna che nel drappello dei fedeli del sabato erano presenti alcuni english native speaker (ricordo un cospicuo semiologo australiano) che furono in grado di ricostruire alcuni passaggi particolarmente compromessi con lo slang; in altri casi rimasero punti interrogativi.




Braque, baroque
La prima cosa a cui pensa l'omino osservatore è il nome del pittore: Braque. Il primo passaggio è quella che in retorica si chiamerebbe un'allitterazione molto ricca, o una paronomasia, e per l'enigmistica è un anagramma con aggiunta: da Braque a baroque. Da un pittore a uno stile: un salto mentale molto facile dal punto di vista del significante, ma molto più arduo dal punto di vista del concetto. Braque e baroque: così vicini (nel patrimonio alfabetico: A, B, E, Q, R U in comune e una sola O di differenza), così lontani (nella storia dell'arte): non c'è gioco di parole che di principio coinvolga il solo significante, l'effetto semantico è sempre in agguato. 

baroque, barrack, bark, poodle, Suzanne R.
 
Altri scivolamenti, spostamenti, metonimie propiziati dall'ambiguo gioco della somiglianza dei significanti (allitterazione-paronomasia): dal barocco si passa a una caserma (barrack), e da questa, per una sorta di riduzione del significante (BARracK - BARK) al latrato canino: il gioco dei significanti resta pressoché inerte dal punto di vista semantico, se non fosse per l'effetto incongruo e già proto-surrealista del celebre e madornale incontro di un ombrello e di una macchina da cucire su un tavolo anatomico. Ce lo ha reso noto il pensiero del Novecento: è la logica del lapsus e dell'associazione automatica, la maligna archivistica dell'inconscio, la storpiatura del nome, la falsa etimologia, la losca semantica dell'impertinenza (nei due sensi della parola impertinenza: "che non pertiene" e "che fa dispetti"). Il passaggio dal latrato al poodle (barboncino) è invece un rigoroso collegamento semantico, dell'ordine della metonimia retorica: dal verso all'animale. Ciò che a me risulta oggi inspiegabile, e non so più se lo fosse stato anche allora, è il passaggio da poodle a Suzanne R.. Oggi, 2004, io scrivo su un computer in cui posso cercare traccia di collegamenti attraverso Google: il sogno segreto di Pim, protagonista del Pendolo di Foucault, il "Sam Spade del sapere", che si guadagna il pane con i collegamenti culturali che riesce a trovare in biblioteca. Un motore di ricerca umano e ante litteram - che è poi un'immagine della figura intellettuale tipica dell'opera di Eco. Ma la rete astratta in cui si risolve il concetto echiano di enciclopedia oggi ha delle realizzazioni dette virtuali (in realtà assai materiali) che assicurano una buona, anche se non completa, circolazione iper- e intertestuale nel vasto rizoma dei concetti. Su Suzanne R e poodle, Google fa cilecca: non posso escludere che si tratti di una relazione semantica nota,  e che solo la mia ignoranza e i difetti tecnici di un motore di ricerca non mi consentono di cogliere. (È il problema delle ricerche su Internet: non sono ricerche, se non trovo subito quel che mi interessa sono portato a pensare che semplicemente non esista). 




Suzanne R., 68th St.?, REgent 7-12...? BUtterfield 8, ALgonquin 4, ELdorado 5
Ma perché accanirsi filologicamente sul discorso, o catalogo, interiore di un perfetto sconosciuto? Io, che nel 1969 non leggevo il New Yorker e l'ho letto poco anche dopo, posso fare delle congetture: e amo pensare che Suzanne R. fosse una gallerista d'arte nota anche per i suoi barboncini o per i suoi quadri con barboncini: "Io sono io perché il mio cagnolino mi riconosce" ha affermato epigrammaticamente Gertrude Stein, e io mi immagino Suzanne R. come una sua seguace. Anche il passaggio successivo, 68th. st.?, pare quello di un indirizzo newyorkese ricordato un po' a tentoni da Steinberg e dal suo omino. Il punto interrogativo ritorna nel passaggio successivo: REgent 7-12...?, e qui incomincia il tema dei nomi con due iniziali maiuscole seguiti da numeri. Su questo, Google è generoso: si tratta della forma dei numeri telefonici di una volta, dove di un distretto della città occorreva digitare due lettere iniziali (R, E per REgent), e il numero. Il punto di domanda significherà forse che l'omino di Steinberg sta cercando di ricordarsi a memoria il numero telefonico di Suzanne R.
Ma intanto è scattata la catena dei numeri telefonici: ecco BUtterfield 8 che è il titolo del film tradotto in italiano come Venere in visone (1960: l'ancora giovane Liz Taylor è una call girl); ecco ALgonquin 4 (dove Algonquin ci ricorda il nome dell'albergo in cui Dorothy Parker incontrava i suoi amici snob, nella New York degli anni Venti); ecco ELdorado 5 (un numero di telefono a cui rispondeva Janet Leigh in un altro film dell'epoca, The Manchurian Candidate/Va' e uccidi, 1962). 


ELdorado 5, El Morocco, Mogador, Mogadiscio, Abyssinia...
Da ELdorado 5 si interrompe la serie di numeri telefonici e si passa a un'allitterazione: ELdorado 5 / El Morocco. Morocco significa "Marocco" in inglese, e se Steinberg fosse stato italiano avrebbe potuto arrivare a Marocco seguendo la scorciatoia baroque/Barocco/Marocco. Ma non c'è solo l'allitterazione che mette assieme Eldorado ed El Morocco: Eldorado è da sempre un toponimo che ha connotazioni di ricchezza favolosa ed esotica, ed El Morocco era un leggendario night club newyorkese. Doppia motivazione anche per il passaggio successivi. Mogador allittera con Morocco, ma è anche il nome di un teatro parigino. Per allitterazione (più ricca) Mogador attrae Mogadiscio, e di qui si ritorna a passaggi di tipo semantico. 


Mogadiscio - Abyssinia - 1936 ! - Vittorio Emanuele III° Re d'Italia e di Albania Imperatore d'Etiopia - George V - Louis XIV - Louis XVII - Louis XXXIX - Paris XIVe.


Mogadiscio - Abyssinia: geografia. Abyssinia - 1936! : storia. Il 1936 è l'anno della fondazione dell'impero italiano e Steinberg in Italia ha vissuto (e ci ha anche conosciuto Umberto Eco). Infatti il prossimo item che viene in mente all'omino è in italiano: Vittorio Emanuele III° Re d'Italia e di Albania Imperatore d'Etiopia. A noi fa un po' ridere, chissà se anche al lettore del New Yorker. Qui scatta la catena dei re: George V (re d'Inghilterra, morto appunto nel 1936), Louis XIV (Re Sole), Louis XVII e poi un fantastico Louis XXXIX. Perché trentanovesimo? L'errore che viene da fare di fronte a questa macchinetta costruita da Steinberg è pensare che i termini siano in relazione uno a uno, ovvero che ogni termine sia legato all'antecedente e al susseguente. Invece si tratta molto spesso (appunto) di catene, e i legami possono anche essere duplici o triplici. In questo caso il numero trentanove viene fuori come somma dei numeri ordinali dei re, che (adesso ce ne accorgiamo) erano in ordine crescente: 3 (Vittorio Emanuele) + 5 (George) + 14 (Re Sole) + 17 (Luigi) = 39.
Esaurita la catena dei re, resta il modello "nome proprio più numero", si resta in Francia e si passa a Paris XIVe (Montparnasse).




...
Ma ora che farò? Ripercorrerò tutti gli items della catena steinberghiana? Se non mi sono andati assieme gli occhi nel contare sono centocinquantasei. Io mi sono divertito privatamente a ripercorrerli tutti, provando a indovinare i motivi di ogni sequenza o a giustificarli tramite libri, enciclopedie, Google. 
Ho adorato alcune concatenazioni: 
Monte Carlo, Monte Cristo (allitterazione ricca), Montealegre (allitterazione), Bernstein (Montealegre è una città spagnola ma era anche il cognome della moglie di Bernstein).
De Bernstein si passa a Lev Davidovich Bronstein (paronomasia), e di lì a vari nomi russi e bulgari, fino a Kropotkin (sodale russo di Bakunin), che apre una nuova catena, sul tema che chiamerò "della K parallela": Kostrowitzki (è il vero nome di Apollinaire: Guillaume Apollinaris de Kostrowitzki), Kandinsky
Kafka, Kupka, Kokoschka...
Segue un altro punto importante, su cui il bianco e nero della foto mi svantaggia: l'omino pensa giustamente a una K, e poi a tante K in caratteri diversi (perché come voleva Pierce l'interpretante non è solo un segno linguistico, può essere anche un equivalente visivo, o di altro tipo), e finalmente a diversi simboli e macchie di colore, tornando al segno linguistico quando scrive black in nero ma poi blue in giallo e yellow in blu.
A proposito di questo nodo, proprio nell'epoca del seminario bolognese erano venuti di moda certi quaderni gialli (ma gialli gialli) che in copertina avevano scritto molto grosso "Yellow". Mi ricordo di aver visto una volta Eco che ne guardava uno, e commentava sarcastico: "eh... il referenzialismo...".
La catena dei colori lascia posto a un altro nome proprio, Greenberg (celebre critico d'arte), e alla sua "traduzione" italiana: Monteverdi. Piccola digressione sinestetica, su compositori dai cognomi "colorati" (Verdi, Rossini) e poi inaugurazione di una nuova catena di nomi composti (come era già Monteverdi: su cui evidentemente c'è stata una biforcazione): Leoncavallo, Catfish (pesce gatto), Ratfink (in slang vuol dire "verme", "persona spregevole"; composto di ratto e spia), Schweinehunde (tedesco: "canaglia, carogna), composto di maiale e cane); Dragonfly (libellula: drago + mosca); Horsefly (tafano: cavallo + mosca)...
Da qui una catena ippica, che si chiude con l'ippodromo milanese di San Siro e apre una digressione hemingwayana con My Old Man (racconto di Hemingway ambientato a San Siro) e si chiude con Kilimanjaro, che per allitterazione porta a Kilogram, e a una serie sulle misure, e poi sulle automobili che con la Hispano-Suiza, porta a Svizzera (in italiano nel testo) e quindi a Trieste. Perché da Svizzera a Trieste? Ma perché furono due tappe degli spostamenti di James Joyce, che infatti appare subito dopo ad aprire una serie di personaggi con nome e cognome allitterante: Greta Garbo, Donald Duck e poi direttamente le sole iniziali: BB (Brigitte Bardot), MM (Marilyn Monroe): non ce ne siamo ancora accorti ma la regola sta cambiando, e lo sappiamo con Phileas Fogg, il protagonista del Giro del mondo in ottanta giorni di Verne. Infatti quella tra Phileas e Fogg è una allitterazione che funziona solo all'orecchio, e non all'occhio. Steinberg fa giochi di parole, ma è anche un illustratore: vuole trarre il maggiore profitto possibile dalle coincidenze e dalle differenze fra il sistema alfabetico e quello fonetico. E attraversa il mondo dell'assurdo con l'anello susseguente: Ugen Unesco, gioco di parole su Eugene Ionesco e sul nome della famosa organizzazione internazionale. Sembrerebbe pronto a un nuovo cambio di catena, ma ritorna e indugia ancora sull'allitterazione nomi e cognomi: c'è ancora da fare un omaggio a Tristan Tzara, una dei santi patroni di questa illustrazione. E da Tzara è tutto un vocalizzo di Tarà, Tata, Uta, Ata, Ita, Nene, Papa... fino all'inevitabile Dada che così risulta quasi il prodotto di una trasformazione del cognome del fondatore Tzara
Poi, saltando un'altra cospicua sequenza di nodi, ci si avvia alla fine quando da Gogol si passa a Nabokov e qui, con deliziosa allitterazione, a Hi Nabor (catena di supermarket di Los Angeles), che apre una serie su gerghi fra scritto e parlato: While-U-Wait (U = you), U turn (idem), U Thant (non idem: U Thant era un politico birmano, già segretario generale dell'Onu). Dopo la digressione errante di U Thant compare una sigla misteriosa: H. B.4. B.U.T.. Al seminario di Eco ci eravamo dichiarati tutti sconfitti dalla sequenza, quando un intervento del semiologo austrialano spiegò a tutti che con quella sigla Steinberg stava ritornando a quelle specie di rebus alfa-fonetici. La sigla sta infatti per la locuzione age before beauty, "prima l'età e poi la bellezza", che si usa per scherzo quando si dà la precedenza a qualcuno su una porta. Chiave del rebus: H si pronuncia quasi come age; B si pronuncia come be; 4 si pronuncia come fore; B., come prima; U si pronuncia come eau; T si pronuncia come ty. H (age) B (be-) 4 (-fore) B (be-) U (-eau-), T (-ty).
Siamo agli ultimi nodi. La catena alfa-fonetica si chiude con un No-X-ing che inaugura una sequenza di avvisi pubblici: Vietato Fumare, Defense d'Afficher, e l'errato e paradossale English Spocken. Spoken magari sì, ma con un errore d'ortografia. Di lì si passa, dunque, a Inghiliss, e a una serie di frasi pidgin che oggi mi hanno introdotto, via Google, a siti Internet veramente bizzarri:  Peles Kanaka (significa più o meno "villaggio nativo"), Kaikai liklik dok (= poco cibo, dottore); Em I rabisman tasol (sono povero, e questo è tutto)... Steinberg lavora su un pidgin melanesiano, detto tok pisin, e chiude la serie con un Mi save tokboy che dovrebbe voler dire: "sono un parlante di tok pisin". Mi pare anche di capire che tok derivi da talk, e pisin da pidgin. Quel che non so è da dove Steinberg avesse preso queste frasi: da qualche film con ukulele? 


Ultimi anelli
Senz'altro, e lo si capisce anche confrontando la copertina del New Yorker con due altre illustrazioni analoghe, Steinberg aveva un'idea abbastanza precisa su come chiudere la catena di catene di questo fumetto. Quando si racconta la storia di questa copertina gli interlocutori molto spesso vogliono subito correre alla conclusione: dove finisce questa fuga di interpretanti? Molti si aspetterebbero che finisse con un ritorno a Braque: l'eterna passione per le chiusure del circolo.
Steinberg evidentemente non aveva in mente un virtuosismo che dimostrasse che tutto è gioco, e che il pensiero fa girotondi. Finisce con il pidgin: e da Mi save tokboy esce con Talkboy e Thinkboy. Talkboy è una ritraduzione in inglese corretto di tokboy: sarebbe un parlante inglese, ma anche un tipo di piccoli registratori a nastro, usati per il parlato (me lo immagino come una sorta di dittafono). Thinkboy (ho trovato una vignetta d'altro autore dove "thinkboy" è un ragazzino che sta studiando) sembra una costruzione per analogia su talkboy. Parole e pensieri, significanti e significati.
Non mi ricordo chi - e forse è stato proprio Nabokov - ha rimpianto che le pareti dei musei non possano riferire tutti i discorsi che i visitatori delle esposizioni fanno di fronte ai quadri. Cumuli di sciocchezze, evidentemente, più o meno colte. Una amica mi ha riferito che durante una visita al Palazzo Ducale di Mantova, arrivati alla Camera degli Sposi, un padre di famiglia ha detto con sussiego a moglie e prole: "è qui che venivano a dormire i Gonzales...". 
Una sorta di pidgin mentale pervade la semiosfera: il suo equivalente simbolico è ogni sistema di scrittura "intuitiva" e di correzione automatica, quando un apparato meccanico (computer, telefonino, e simili) ci propone le sue versioni delle parole e dei nomi che vogliamo scrivere, pescandoli a casaccio nelle possibilità già in memoria. E infatti l'allitterazione, la figura prediletta da Steinberg, è il trionfo dell' à-peu-près: dall'universo della precisione all'infinita varianza dell'approssimazione.
Significati e significanti collidono e si sbriciolano, sottoposti all'accelerazione ciclotronica degli stimoli culturali. Mi pare dunque che in questo tuffo nel pidgin Steinberg abbia intuito che lo sviluppo della cultura di massa avrebbe eroso l'identità di quelle che Eco chiama le "unità culturali", ovvero gli atomi che costituiscono l'enciclopedia di un'epoca, o di una singola persona. In fondo è un modo per chiudere la catena con Braque, visto che il cubismo ha segnalato subito gli effetti di scomposizione e decomposizione dovuti alla percezione moderna.
Abbiamo dunque la fruizione dell'opera come stimolo di un parodistico stream of consciousness e il linguaggio mescolato e regressivo del pidgin come sorte della modernità. 
Perché è anche una grande lezione sui giochi delle parole? Quel che ne concludo io è che tali giochi sono strutture di associazione che si possono incontrare nei luoghi più diversi: sono i meccanismi di funzionamento che nei giochi di parole (in senso stretto) tengono da soli il campo, ma che nelle più comuni come nelle più alte operazioni di significazione consentono di combinare e aggregare il disordine che abbiamo - chi più chi meno - in testa. Non sempre all'analista è possibile classificarli, per esempio distinguendo quelli di "parola" da quelli di "pensiero" (i giochi del Talkboy e i giochi del Thinkboy), perché la loro natura è ibrida: hanno sempre funzione di collegamento e di cortocircuito. Ma nel loro assieme danno un'idea di flusso, di interrelazione e di surdeterminazione: e questa idea, tutto sommato, non è meno utile che futile.

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