Riga n. 31
Furio Jesi
Marco Cicala
Il Benjamin italiano che svelò slogan e trucchi dell'Ideologia
Il Venerdi di Repubblica, 02 Settembre 2011

Quali segrete corrispondenze avvicinano gli sciropposi romanzi di Liala alle parole d’ordine di chi negli anni 30 predicava la religione guerriera della bella morte – i falangisti spagnoli come i fascisti romeni della Guardia di Ferro? E che c’entrano le pubblicità blasé o il gergo delle riviste femminili con la cesellata poesia di Rainer Maria Rilke o con la metafisica elitista di un Julius Evola? Solo un eclettico decifratore di mitologie quale Furio Jesi poteva scoprirlo. Nel saggio Cultura di destra – uscito nel ‘79 e, per fortuna, da poco ripubblicato dalle edizioni Nottetempo (a cura di Andrea Cavalletti) – l’esoterismo di certo pensiero detto reazionario è vertiginosamente messo in correlazione con quanto c’è di più «essoterico» e massificato: réclame, rotocalchi o, appunto, i bestseller di Liala. Se linguaggi all’apparenza tanto distanti possono essere situati in una stessa costellazione è perché – secondo Jesi – dribblano entrambi la razionalità del linguaggio e seducono con quelle che lui chiama «idee senza parole »: formulazioni numinose o carezzevoli, in realtà stereotipate, che fanno presa con la potenza irresistibile della suggestione. Semplificando, diremmo slogan dove non c’è un bel niente da capire, dato che conta solo l’adesione emotiva. O l’obbedienza. Furio Jesi era nato a Torino settant’anni fa. Sarebbe morto a Genova nell’80, avvelenato nel sonno da una fuga di gas dello scaldabagno. Pur avendo all’attivo oltre una ventina di libri, lasciava aperto un vasto cantiere di progetti audaci quanto compositi, sulla falsariga del più originale mitologo della modernità: quel Walter Benjamin «che è una delle figure a lui più care e vicine. Negli archivi ho ritrovato una cartolina in cui Jesi si firmava scherzosamente col nome del filosofo tedesco» ricorda il curatore Andrea Cavalletti. «A unirli c’è la matrice ebraica, la tecnica del montaggio di materiali eterogenei, ma anche l’idea politica di inoltrarsi criticamente sul terreno dell’avversario». Nella fattispecie, quella Cultura di destra che nel discusso saggio del ‘79 veniva affrontata senza tabù. Mitologo, germanista, storico delle religioni, critico militante, traduttore, eroico free-lance, quindi professore universitario «per meriti scientifici» (essendo privo di laurea oltre che di diploma) – Jesi era stato un enfant prodige. Anche se la definizione andrebbe pronunciata sottovoce perché – mercificata com’è – di sicuro gli avrebbe fatto orrore. Di padre ebreo – ma «arianizzato», eroe di guerra, e vicino agli ambienti del giudaismo filo-fascista – Furio Jesi aveva mollato gli studi all’epoca del ginnasio: la scuola gli andava già stretta. A quindici anni pubblica il primo libro Racconti e leggende dell’antica Roma. A diciotto intraprende archeo-viaggi in Grecia e Asia Minore, interviene a convegni in mezza Europa, collabora con fondazioni e riviste internazionali. A ventitré anni è in fitto contatto epistolare con Karoly Kerényi, guru dei mitologi. Il rapporto si spezzerà per dissidi politici. Ma questa è un’altra storia. Grande irregolare, Furio Jesi resta passabilmente dimenticato. Chi voglia però rimettersi sulle sue tracce troverà un giacimento di spunti nel numero monografico a lui dedicato dalla rivista Riga – a cura di Marco Belpoliti ed Enrico Manera, e con scritti – tra gli altri – di Gianni Vattimo, Giorgio Agamben, Georges Dumézil, Franco Volpi... E dello stesso Jesi, che in una pagina illuminante spiegava: «Il mito è una “storia vera” accaduta al tempo delle origini, che spiega come siano nate tutte le cose dell’universo e come abbiano fatto gli uomini, per la prima volta, a mangiare, a riprodursi, a fabbricare oggetti, a combattere ecc.». Nel Moderno invece «i nuovi miti rappresentano una fuga dalle restrizioni e dai dolori della realtà storica. Non potendo essere un “eroe”, l’uomo si crea eroi esemplari nelle persone che godono di particolare ricchezza, successo, notorietà ecc. (...) Non potendo vivere in una comunità effettivamente solidale, si crea comunità mitiche (dalle “società segrete” dei bambini a quelle degli adulti, dai gruppi dei tifosi sportivi alle comuni hippies ecc.)». Nella modernità, insomma, i miti sono «generalmente valori sostitutivi: compensazioni di valori assenti o non percepiti». Tecnicizzato, il mito funziona come «macchina mitologica », dispositivo che fabbrica mentalità, fedi, obbedienze politiche, stili di vita, mode. Oggi ci si potrebbe chiedere, ad esempio, che genere di mitologie si attivino in fenomeni così diversi quali il purismo delle culture bio, o i maxi-raduni papali, o il vintage – anche quello politico, con la sua nostalgia dei Grandi leader, dei Grandi partiti popolari, del Grande sindacato, della Grande Fiat... Per Jesi la mitizzazione moderna comporta sempre un uso – e consumo – del passato come «pappa omogeneizzata che si può modellare nel modo più utile» secondo le esigenze, ideologiche o mercantili, del presente. Perciò – benché sia stata la Destra a riciclarlo esplicitamente – il Mito agisce anche a Sinistra, in parole maiuscole come Giustizia, Libertà, Rivoluzione... Irriga le narrazioni fondative del patriottismo risorgimentale o, perché no, resistenziale, per non parlare – più all’estremo – della simbolica e della fraseologia pistolera che fu delle Br. Osserva Andrea Cavalletti: «Per Jesi quello della demitologizzazione è un compito politico. Un lavoro che però il critico deve applicare anche a se stesso ». Per tentare di individuare quanto e come le mitologie operino in lui. Illuminista senza feticci razionali, Furio Jesi chiariva in un’intervista all’Espresso che per Cultura di destra andava intesa «una cultura fatta di di autorità, sicurezza mitologica circa le norme del sapere, dell’insegnare, del comandare e dell’obbedire». Subito dopo rovesciava il cliché della cosiddetta egemonia culturale di sinistra, ma così: «La maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole essere affatto di destra, è residuo culturale di destra. Nei secoli scorsi la cultura custodita e insegnata è stata soprattutto la cultura di chi era più potente e più ricco...». E ancora: «Ho qualche dubbio circa la possibilità di applicare oggi in Italia la distinzione fra destra e sinistra, non perché in astratto io la ritenga infondata ma perché non saprei bene quali esempi di sinistra citare». Parole di tenore quasi pasoliniano. Nei furenti 70 gli attirarono più di un anatema. Non ci vuole la chiromante per capire perché.
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