Riga n. 28
Gianni Celati
Andrea Giardina
Gianni Celati
L'Indice, Dicembre 2008

Si può indicare un percorso che aiuti a muoversi nel «bazar» delle idee, scritti, frammenti, note e immagini di Gianni Celati? In omaggio al settantesimo compleanno dello scrittore, ci ha provato il numero di «Riga» (curato da Marco Belpoliti e Marco Sironi), dove, secondo formula ormai collaudata, si propongono sia materiali d'autore - esercizi autobiografici, interviste, la versione 1972-73 di Comiche, saggi, diari di viaggio perlopiù inediti -, sia una stratificata serie di interventi critici (recensioni d'annata e saggi realizzati per l'occasione, tra cui si segnalano «Africa» di Andrea Cortellessa e «Camminare nell'aperto incanto del sentito dire» di Massimo Rizzante). L'esito della «mappatura» è il riconoscimento di un ruolo: Celati è «uno dei maggiori scrittori italiani viventi». Perché? Innanzitutto per aver scritto libri chiave, che non solo sono stati capaci di guidare almeno due generazioni di scrittori, ma hanno anche messo a nudo i limiti della letteratura. Poi per avere accompagnato la narrativa ad una continua riflessione critica, sostenuta da esplorazioni che vanno da Platone a Spinoza, a Lévi-Strauss, a Deleuze: segno di una complessità che se non è naturalmente sinonimo di grandezza reca perlomeno traccia di quanto la scrittura sia un'arma conoscitiva, ovvero uno strumento per «aspirare», secondo quanto si legge nell'«Editoriale», «ad una forma di vita che è al di là della letteratura»....
Come appare evidente, Celati è infatti scrittore che evita qualsiasi «idea ricevuta». Lo dimostrano appieno anche i racconti dei «Costumi degli italiani», in corso di pubblicazione da Quodlibet (sono apparsi i primi due testi della serie, Un eroe moderno e Il benessere arriva in casa Pucci): testi che nella loro dosata malinconia sembrano non stare mai fermi, evitando ogni accomodamento in calchi già usati, e che in sottofondo, dietro alle stramberie di una voce narrante ingenua e spiazzata indirizzata verso il proprio passato, nascondono una delle molle della scrittura di Celati, vale a dire l’insofferenza. Estraneo al compromesso, Celati fa a pezzi quanto non gli piace. A partire dalle pose dell’ «autore», con il suo io «borghese sepolto nel loculo della sua individualità» (è la condizione di Tritone, lo scrittore acclamato da tutti ma messo in crisi dalle osservazioni di uno studente); per giungere al «professionismo», al mercato editoriale, all’appartenenza alle «cricche», al romanzo come prodotto da vendere. Scrivere è un atto di libertà, per sua natura irregolare e segnato dagli «stati» del corpo su cui la scrittura retroagisce con «effetti curativi», secondo un’idea di Lévi Strauss. Se il caso pare dominarla, facendo della letteratura «un accumulo di roba sparsa», un incastro di frammenti che trovano «dopo» (e talvolta soltanto momentaneamente come dimostra la necessità della riscrittura) un loro senso, è però anche vero che la letteratura ha un carattere «cerimoniale»: lo insegnano le società tradizionali, il mondo contadino e quell’Africa verso cui si è sempre più diretta l’attenzione del «secondo Celati», quello che segue l’incontro con la fotografia di Luigi Ghirri. «Fenomeno a-sociale, tra solitari, per solitari», la letteratura però «non ha nessun senso come impresa soggettiva: esiste solo come pensiero collettivo, come legame, transito da una persona all’altra». È un vento, uno scorrere di sensazioni e di idee, «il punto d’incontro del pensiero di popolazioni». In questa direzione Celati compie quel salto che lo conduce oltre la modernità e nello stesso tempo lo riaggancia a tradizioni antiche. Secondo uno dei precetti del postmodernismo - lo ribadisce Cortellessa, che rimanda a Contro l’interpretazione, il saggio scritto da Susan Sontag nel 1964 - scrivere non è ricerca di sensi profondi o di messaggi, ma è «un abbandonarsi all’apparire delle cose». Se vivere significa stare nell’incantamento delle storie - come capita al giovane Pucci che prima di andare in manicomio «si fa le storie» osservando «le pagine d’un libro» e le fisionomie delle case, oppure ascoltando il silenzio (Il benessere arriva in casa Pucci) - compito della letteratura è moltiplicare l’incantamento, evitando le spiegazioni: «i narratori pescano pezzi di roba qualsiasi dal fabulare quotidiano: cioè dal fatto che gli uomini vivono sempre in uno stato di incantamento per effetto del sentito dire, e non smettono mai di raccontarsi favole e panzane sulla vita e sul mondo». Si raccontano storie perché la vita è piena di storie. Storie che vivono sulla superficie, su quell’apparenza a cui bisogna tornare. È in questo senso che Celati recupera opere come l’Orlando innamorato o la tradizione novellistica, rimontando ad esperienze di racconto come fantasticheria che vive nell’«errore», nel brodo dell’immaginazione, nell’iridescenza dei corpi, in quella condizione che Heidegger ha definito «estatica», in cui ciascuno, sporgendosi «continuamente fuori di sé», si proietta «verso gli altri».
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