Fabio Francione
Celati regista, dai residui d'esistenze al progetto africano
Il manifesto, 04 Ottobre 2008
Celati regista, dai residui d'esistenze al progetto africano
Il manifesto, 04 Ottobre 2008
È nota la ritrosia di Gianni Celati ad apparire e a partecipare a eventi pubblici. Lo scrittore di Sondrio ha lasciato quasi sempre che ad occupare lo spazio «pubblico» della sua produzione fossero solo ed esclusivamente i romanzi, le numerose traduzioni e i tanti saggi, le acuminate antologie, e in ultimo i film. Lasciati, e non a caso, in fondo alla lista, i film di Celati, meno di un pugno di film dal documentario, commissionatogli nel 1981 da Angelo Guglielmi, Strada provinciale delle anime al suo miglior film (e più visto) Visioni di case che crollano con in mezzo copioni prestati a fiction e documentari (Il grande Fausto di Alberto Sironi, raccontato per altro in forma diaristica in Verso la foce, Mondo nuovo di Davide Ferrario e La Vita come viaggio aziendale di Paolo Muran) e l'amicale, girato in prima persona, Il mondo di Luigi Ghirri (il fotografo che gli ha insegnato come «percepire il mondo esterno»), hanno qualcosa di segreto e incomprensibile al mondo contemporaneo, non solo per la presenza quasi clandestina nelle programmazioni cinematografiche e nei palinsesti televisivi, ma per quello che potrebbero riservare ad ogni nuova visione e ancora più quando si ha la possibilità di vederli tutti insieme. Rarissime volte è capitato, e sempre in Festival: Bellaria, Lodi, Filmmaker.
Allora, il secondo appuntamento della due giorni organizzato dalla Provincia di Milano e dalla Cineteca Italiana in occasione della pubblicazione della monografia di Riga, curata da Marco Belpoliti e Marco Sironi, per l'opportunità che presenta, allo Spazio Oberdan e a partire da questo pomeriggio (ore 14.30) fino a sera tardi, per la sua unicità, rischia sorprendentemente e a ragione in questo caso, di mettere una volta tanto in disparte lo scrittore Celati (tutto Celati, compreso l'ultimo della serie Costumi degli italiani che sono la parte residua di una memoria critica che non riesce a staccare fino in fondo la spina dall'«invivibile» Italia). Dunque, Celati regista: le ultime notizie lo davano alle prese con il suo ultimo e non finito film (si vedrà la prima delle tre puntate alle 21), film africano, ad alto contenuto etico e politico, girato (e da girarsi) «senza soccorsi finanziari e semmai soccorrendo il villaggio in questione nel tentativo di portarvi l'acqua corrente (tentativo purtroppo andato in fumo proprio all'ultimo momento)». Diol Kad (questo sarà il titolo definitivo), un villaggio senegalese di 300 abitanti mostra il suo modo di «passare la vita», dovrebbe essere un documentario in tre puntate, «una delle quali già montata e mostrabile» (così Celati nella Lettera sul Cinema indirizzata a Enrico Nosei della Cineteca Italiana e reperibile per intero su rigabooks.it). Lo squarcio autobiografico scatena una tale batteria di colpi che mandano all'aria qualsiasi tentativo di comprendere il viaggio nel cinema e nelle immagini (perlopiù inamminamenti abbandonati, rovine d'abitazioni, insomma residui d'esistenze) utilizzando strumenti critici e appigli teorici legati ad un mondo (occidentale) che lo scrittore-regista rigetta in tutto e per tutto (si legga L'esercizio autobiografico in 2000 battute, sempre su Riga). A tal proposito sarebbe facile, analizzare il «turning point» africano scomodando Pasolini (tanto va bene per qualsiasi stagione). Senonché l'Africa di Celati fa implodere l'Africa pasoliniana: per come questa è ancorata alla mitografia grecoarcaica (quanta Ggrecia e di riflesso «mondo perduto e da ritrovare» vede Pasolini nell'Africa che filma e non solo nei titoli), mentre, e al contrario, l'Africa di Celati è come dire «disambientata» e ritta sul presente e sulla possibilità altra, per l'appunto, «di passare la vita».
Allora, il secondo appuntamento della due giorni organizzato dalla Provincia di Milano e dalla Cineteca Italiana in occasione della pubblicazione della monografia di Riga, curata da Marco Belpoliti e Marco Sironi, per l'opportunità che presenta, allo Spazio Oberdan e a partire da questo pomeriggio (ore 14.30) fino a sera tardi, per la sua unicità, rischia sorprendentemente e a ragione in questo caso, di mettere una volta tanto in disparte lo scrittore Celati (tutto Celati, compreso l'ultimo della serie Costumi degli italiani che sono la parte residua di una memoria critica che non riesce a staccare fino in fondo la spina dall'«invivibile» Italia). Dunque, Celati regista: le ultime notizie lo davano alle prese con il suo ultimo e non finito film (si vedrà la prima delle tre puntate alle 21), film africano, ad alto contenuto etico e politico, girato (e da girarsi) «senza soccorsi finanziari e semmai soccorrendo il villaggio in questione nel tentativo di portarvi l'acqua corrente (tentativo purtroppo andato in fumo proprio all'ultimo momento)». Diol Kad (questo sarà il titolo definitivo), un villaggio senegalese di 300 abitanti mostra il suo modo di «passare la vita», dovrebbe essere un documentario in tre puntate, «una delle quali già montata e mostrabile» (così Celati nella Lettera sul Cinema indirizzata a Enrico Nosei della Cineteca Italiana e reperibile per intero su rigabooks.it). Lo squarcio autobiografico scatena una tale batteria di colpi che mandano all'aria qualsiasi tentativo di comprendere il viaggio nel cinema e nelle immagini (perlopiù inamminamenti abbandonati, rovine d'abitazioni, insomma residui d'esistenze) utilizzando strumenti critici e appigli teorici legati ad un mondo (occidentale) che lo scrittore-regista rigetta in tutto e per tutto (si legga L'esercizio autobiografico in 2000 battute, sempre su Riga). A tal proposito sarebbe facile, analizzare il «turning point» africano scomodando Pasolini (tanto va bene per qualsiasi stagione). Senonché l'Africa di Celati fa implodere l'Africa pasoliniana: per come questa è ancorata alla mitografia grecoarcaica (quanta Ggrecia e di riflesso «mondo perduto e da ritrovare» vede Pasolini nell'Africa che filma e non solo nei titoli), mentre, e al contrario, l'Africa di Celati è come dire «disambientata» e ritta sul presente e sulla possibilità altra, per l'appunto, «di passare la vita».