Riga n. 6
Antonio Delfini
Cesare Garboli
Delfini in Riga
Paragone, Febbraio 1994

Si torna a parlare di Delfini in occasione del volume monografico della rivista ‘Riga’, edito da Marcos y Marcos e curato da Marco Belpoliti e Andrea Palazzi, quest’ultimo benemerito custode degli scritti delfiniani che si conservano nelle biblioteche di Modena. Il volume raccoglie scritti di e su Delfini, oltre a un’antologia della critica delfiniana e a uno scambio di lettere con Mario Pannunzio, pubblicato e presentato con competenza e intelligenza dal Palazzi. Non nego che questo documento possa essere, come si dice, una curiosità. Ma che tristezza! Delfini e Pannunzio furono due amici, come non di rado succede, sbagliati; quel che aveva l’uno, mancava all’altro; e così passarono la vita a invidiarsi. Venivano entrambi dalla provincia: Delfini era ricco, e posava a dandy, piena l’anima di chimere e di sogni; Pannunzio inseguiva sogni più raggiungibili e più concreti. Delfini invidiava le doti mondane e realizzatrici di Pannunzio, la capacità che Pannunzio aveva di farsi rispettare e ascoltare, di stare al centro della vita sociale e letteraria, al centro delle relazioni che contano; e Pannunzio invidiava a Delfini il talento naturale, la smemoratezza, la sbadataggine, la sua innocenza e la sua purezza. Furono amici in gioventù, negli anni Trenta; poi, quando le fortune di Pannunzio si consolidarono, Delfini ebbe occasione di ripensare con amarezza alla loro storia così diversa, quanto più, in apparenza, vissuta insieme. Scrisse allora quella magica e derisoria pagina che si legge nell’introduzione alla ristampa del Ricordo della Basca (1956), dove vengono dileggiate e ridicolizzate le imprese culturali proprie e dell’amico, e ferocemente satireggiate le discussioni dei letterati romani divisi tra il formalismo e il contenutismo. Povero Delfini! Desiderava tanto un amico col quale confidarsi, e si ritrovava in compagnia di un giovane e solerte Ministro degli Affari Culturali, così indaffarato a organizzare giornali e riviste e a discutere di tutto e di tutti da non trovare mai il tempo di scambiare in pace due chiacchiere. Fu allora che Delfini cominciò a immaginare che alle spalle dell’amico, ogni volta che lo incontrava, si aprisse ‘una piccola coda di pavone’.
E d’altra parte, che cosa poteva fare Pannunzio davanti a uno come Delfini se non scuotere la testa? Nel 1951, Delfini pubblicò a sue spese un Manifesto per un Partito comunista e conservatore dove si teorizzava la coesistenza di un’economia patriarcale nelle campagne e un modello dirigistico sovietico nelle grandi aziende industriali. ‘Conservatori per quanto riguarda la proprietà terriera’, diceva Delfini, ‘ non esitiamo a dichiararci comunisti nei riguardi della proprietà industriale’. Il comunismo di Delfini era semplice: abolizione di qualunque trust e gestione collettiva operaia nelle fabbriche. La conclusione era sorprendente, ma non senza logica: ‘Per dare a una società italiana così rimodellata l’idonea struttura costituzionale pensiamo si debba restaurare con molte cautele il vecchio statuto albertino e adattarlo con debiti accorgimenti al regime repubblicano… L’Italia ha una nascosta memoria di ciò che essa era prima del 1859, prima cioè che una sorta di arbitrio giacobino sostituisse agli storici Stati le burocratiche, numerose, ingombranti province. Da questa memoria che può dare un significato concreto agli autonomismi e ai progetti di riforma della burocrazia, viene l’opportunità di una nuova legge elettorale e di una nuova forma di rappresentanza politica’. Date queste premesse, Delfini auspicava una Confederazione di Stati all’interno della Repubblica, e si diffondeva minuziosamente sugli organi rappresentativi e la riforma elettorale necessaria al rinnovamento. Che poteva fare Pannunzio, nel 1951, davanti a questo bel progetto, se non scuotere la testa?
Ma chi voglia distogliersi dal ping-pong epistolare con Pannunzio e guardare altrove, nella straordinaria fortuna postuma di uno scrittore che quasi nessuno, fino a una decina d’anni fa, ricordava più o sapeva che fosse esistito, può trovare nel fascicolo di ‘Riga’ molto su cui riflettere. Che costa sta succedendo intorno a Delfini? Perché tanto interesse? Che cosa c’era di tanto diverso dagli altri, in questo scrittore? La piccola antologia critica delfiniana curata dal Belpoliti – antologia della critica delfiniana ‘storica’ – potrebbe sollecitare o invogliare qualche risposta. Io mi limito a riprodurre qui un vecchio testo che, con ogni probabilità, nessuno ha mai letto. È un peccato che il Belpoliti non lo abbia recuperato. Si tratta di un’intervista cattiva e mordente, come è nelle regole del miglior giornalismo letterario italiano da Longanesi in poi. Ma che dico intervista! Un colloquio, una conversazione, qualche risposta un po’ critica data a due o tre perfide domande che Sapo Matteucci mi rivolse quando uscirono i Diari di Delfini curati dalla figlia Giovanna e da Natalia Ginzburg, e presentati da chi scrive. Molto delfiniamente, il servizio apparve su un quotidiano-fantasma, ‘Il Globo’ diretto da Michele Tito, giornale improvvisato che durò non molto più a lungo dell’anno in cui furono pubblicati i Diari, il 1982. L’anno in cui uscì l’intervista era sicuramente quello, ma il giorno e il mese li ignoro. Si tratta dunque di un testo ormai introvabile. Anche per questo, oltre che per colmare una lacuna nel bel libro del Palazzi e del Belpoliti, mi sembra giusto restituirlo alla memoria.


UN ORFANO DEL SUO TEMPO
Colloquio di Sapo Matteucci con Cesare Garboli

Antonio Delfini è uno scrittore italiano della prima metà del ‘900 vissuto sepolto, morto dimenticato. Si ricordava la sua figura stravagante e dissociata tutt’al più fra pochi adepti in cerca di curiosità letterarie. Un giovanotto senza qualità; molto ricco, che non conosceva il valore del denaro, un gran bordelliere e un gran timido, un cultore di paradossi all’acqua e sapone, un provinciale cosmopolita.
Così Delfini è rimasto uno scrittore semiinesistente, un fantasma letterario che si confondeva con i personaggi di un racconto mai scritto; quello della sua vita. Dopo la morte, nel 1963, si chiusero o meglio continuarono a restare chiusi i libri che aveva pubblicato: dal primo Ritorno in città del 1931 al più conosciuto Il ricordo della Basca del ’38, poi ristampato con una lunga introduzione retrospettiva nel ’56.
Einaudi, iniziando la pubblicazione di tutte le opere di Antonio Delfini, ha presentato come primo volume i Diari inediti, curati dalla figlia Giovanna e da Natalia Ginzburg. Per sapere qualcosa su questo libro interamente nuovo e su questo scrittore ‘rinnovato’, siamo andati a trovare Cesare Garboli, che, negli anni Quaranta e Cinquanta, frequentò a lungo Delfini, diventando per lui qualcosa di più di un semplice amico: per Delfini, Garboli fu ‘il miglior fabbro’: un lettore personale capace di incitare uno scrittore scoraggiato costituzionalmente puerile, quindi indifeso verso il mondo.

Lei hai scritto la prefazione ai Diari inediti di Delfini per ripresentare questo scrittore. Perché finalmente i lettori si misurassero con un autore e non con un piccolo fantasma culturale. Come è stato accolto il libo?

È innegabile che da un punto di vista editoriale il libro sia andato bene: c’è stata attorno ai Diari e continua ad esserci una costante curiosità. Ci sono state però, secondo me, anche due occasioni perdute. In primo luogo non è stata colta l’opportunità di affrontare lo ‘scrittore’ Delfini: di tentare, ricollegandosi anche agli altri suoi libri, una prima esplorazione critica. Questo non era il compito della mia prefazione. Io dovevo presentare al pubblico la fisionomia generale di uno scrittore misterioso e singolare ma soprattutto nascosto. L’altro punto è forse ancora più importante: non ci si è chiesti se e come la pubblicazione di questi Diari inediti (che attraversano più di trent’anni di letteratura) modifichi il paesaggio culturale italiano di quegli anni. Si può dare anche una risposta negativa. Può darsi che questi Diari non aggiungano, né sull’opera né sul tempo di Delfini, molto di nuovo. Ma non è giusto eludere del tutto la questione. Faccio eccezione, tuttavia, per il bellissimo articolo di Rago su ‘Paese Sera’, un pezzo penetrante scritto con calore e sincera volontà di capire, e in parte per le recensioni di Giuliani, apparsa sulla ‘Repubblica’ e Spagnoletti sul ‘Tempo’.

Quello che dice non è del tutto vero. Luigi Baldacci, sulla ‘Nazione’, sia pure rapidamente, ha toccato, questi due punti: ha detto che nei Diari Delfini esprime pensieri ingenui, quasi banali; e che come scrittore rimane essenzialmente quello che era: un dilettante.

È vero: Baldacci ha dato una risposta (i Diari di Delfini sono infatti una domanda) e ha preso una posizione negativa, un po’ riduttiva ma netta. Però la definizione di ‘dilettante’ introduce un falso problema. Che significa ‘dilettante’? Bisognerebbe saperlo. La distinzione fra dilettanti e professionisti, forse giustificabile una volta, mi sembra uno di quei discrimini che invece di chiarire confondono le carte. Ma comunque prendiamo per buona l’etichetta: come, un dilettante? Delfini era al centro della letteratura, non ai margini. È stato un autodidatta che ha cominciato a usare la penna, come un falegname il martello e i chiodi, perché non ne poteva fare a meno. La scrittura, per lui, è cominciata addirittura prima della vita. Come un dilettante? Delfini è entrato nella letteratura come un tonno ferito entra nella tonnara. Inoltre non si può essere ‘dilettanti’ senza un rapporto in qualche modo pacifico e edonistico con il proprio oggetto e strumento di lavoro. Non è certo il caso di Delfini. Dilettante è semmai, a mio avviso, uno scrittore del tipo di Savinio: un musicista, un pittore, uno scrittore, che di volta in volta eleggeva a professione uno di questi tre mestieri, relegando gli altri due a una forma di svago intellettuale. Perfino De Chirico, in un certo senso, è stato un pittore dilettante. Eppure era De Chirico.

Ma la prospettiva forse è diversa: il dilettantismo non si esaurisce nell’atteggiamento, ma può cominciare dalla espressione raggiunta, da quello che lo scrittore offre sulla pagina. In una parola molto semplice, sotto accusa sono i risultati, lo stile di Delfini.

È lo stile d’un autodidatta, di uno scrittore senza modelli, non di un dilettante. Ogni riga di Delfini è autentica. Se si prende in mano uno scritto qualsiasi di Delfini, non lo si molla più. Le parole volano come l’aria e corrono come l’acqua. La rarità, anzi l’unicità di Delfini, come scrittore, è che in lui la sapienza letteraria non coincide mai con la consapevolezza letteraria, con la ‘premeditazione’.

In fondo ha risposto solo alla seconda obiezione che si muove alla lettura di Delfini. Questi Diari sono autobiografici. Ma il testimone deve essere acuto; i diari importanti sono quelli che, immersi nella realtà contingente, gettano il cuore e lo sguardo oltre i giorni. È il caso di Delfini? I suoi diari sembrano lo sfogo di una solitudine irrimediabile, dove l’illuminazione convive con la banalità e spesso dà luogo a frusti paradossi. C’è qualcosa che sottrae i Diari al documento appiattito di un gentiluomo spaesato, di un sognatore infantile…?

I Diari di Delfini sono importanti per due ragioni. Primo di tutto come laboratorio dello scrittore, come cantiere dei suoi fantasmi letterari. Nei Diari, ad esempio, si potrebbe cercare d’identificare la formazione del fantasma del Ricordo della Basca. La Basca è la ragazza che rappresenta la grande mitologia della vita e dell’opera di Delfini. A mio avviso la Basca è uno dei pochi mitologemi femminili resistenti e vittoriosi della letteratura italiana di questo secolo, che è poverissima di mitologemi femminili. In secondo luogo il segreto, il fulcro magico di questi diari sta nel fatto che Delfini si rappresenta contemporaneamente attraverso tre tempi. Delfini riesce a testimoniare sull’oggi attraverso la modalità crudele con cui ha vissuto il trentennio che noi abbiamo vissuto. Delfini è stato, nel tempo di ieri, il testimone del tempo di oggi. C’è una lacerazione, una contrazione di tempi nelle sue esperienze. Questo è il grande valore di Diari: lo spaccato autobiografico in cui si epifanizza una persona attraversata e lacerata dalla compresenza di tre strati cronologici. Delfini era un uomo del passato che non seppe vivere nel presente; ma questa incapacità lo fece slittare nell’orizzonte del futuro. Essa lo fa cadere nell’oggi.

Quali sono i motivi futuri, che, per Delfini, erano attuali? Dove sono le idee espresse allora, nel passato, che
illuminano, adesso, il nostro presente?

Se i Diari di Delfini fanno porre questa domanda vuol dire che toccano nel segno. Non perché diano delle risposte attuali, ma perché pongono delle domande attuali: leggendo un libro scritto trent’anni fa, scaturiscono alcuni problemi che ci investono oggi, e magari non sappiamo rispondergli.

Quali problemi? In fondo è come  se le chiedessi che cosa l’attraeva del personaggio di Delfini.

Quello che mi attraeva di Delfini e mi sembrò d’intravedere in lui quando lo conobbi era la possibilità di un modello virile diverso da tutti quelli che mi circondavano. In Delfini il femminile e l’infantile non erano negati  e tuttavia Delfini esprimeva ugualmente un’immagine della virilità. Spesso la virilità, o per lo meno la maturità maschile, si crede che esiga l’assassinio di un certo tipo di valori femminili e infantili e la si debba pagare necessariamente a prezzo di conquiste ciniche. Ho notato che questo avviene di meno negli ebrei e nei protestanti. È probabile che io fossi circondato nella mia famiglia da uomini di tipo esteriormente maschilista. In Delfini cercai un valore virile diverso, un padre e io naturalmente scelsi la persona meno adatta ad esserlo. Successe lo stesso a Delfini con me. Eravamo l’uno per l’altro due finti padri e due veri figli. Nella prefazione ho accennato di sfuggita alla enorme importanza che riveste, nei Diari di Delfini, la totale assenza della figura paterna.
Delfini ha vissuto questo problema in termini che valgono non solo per l’oggi, ma perfino per il nostro domani.

Un tema di questi Diari, allora, sarebbe: la puerilità e l’essere orfani come elemento centrale della nostra condizione odierna. Cioè la consapevolezza dell’essere orfani e puerili, in che cosa ci cambia?

Supponiamo che l’esperienza letteraria di questi Diari testimoni della rovinosa crisi di un modello di virilità che sta ormai sfasciandosi. In questo senso in questi Diari o non c’è nulla o c’è il ramo di una virilità diversa da quella convenzionale. Cioè, per intenderci, da quella fascista.

Quindi la nostra maturità virile, quella di oggi, è fascista?

In gran parte sì. Nel senso in cui la virilità si è precisata oggi storicamente: dentro ogni italiano, specie se di tradizione borghese e cattolica, c’è sempre il pensiero nascosto e rimosso che il fascismo sia, in definitiva, la vera soluzione. Non è così per gli ebrei e per i protestanti. Se Delfini non fosse stato oppresso da un modello di virilità fascista si sarebbe liberato e avrebbe probabilmente risolto quei problemi di puerilità e di crescita (cioè di realtà) che sono sanguinanti nella sua opera.

Ecco uno dei temi di oggi che Delfini avrebbe testimoniato nei suoi Diari, vivendo spiazzato nel tempo, cioè essendo di oggi mentre viveva ieri. Difatti, nella prefazione, lei vorrebbe prelevare il corpo di Delfini e gettarlo negli avvenimenti del nostro tempo per vedere cosa accade.

Non sono io che lo voglio. È Delfini che vive con i suoi Diari, negli avvenimenti di oggi. La vita espressa in quei diari è inspiegabile coi soliti metri d’interpretazione. Si tratta di una vita assurda, inesplicabile, rovinosa, disperata, folle; e tutto questo senza alcun valido motivo apparente. Eppure Delfini non era persona da lettino di psicanalista. I casi sono due: o era matto o c’è qualcosa in questi Diari che non abbiamo ancora capito e che ci riguarda direttamente.

È quella, secondo me, la casella vuota dei Diari, ma lei sempre riempirla e giustificarla. Non si è chiesto se sta confondendo inconcludenza generica con un mistero?

Io non credo che il messaggio di questi Diari sia di inconcludenza. Credo che l’esperienza di Delfini, di cui i Diari sono la testimonianza frammentaria, non raggiunga mai la soglia di una maturità fittizia, questo sì. Il vero tema di questi Diari è il narcisismo, il protagonismo immaginario, cioè un esperienza capitale del nostro tempo, e l’esperienza di Delfini si conclude, dopo aver pagato un prezzo altissimo, con la liberazione dal protagonismo immaginario e con la sua sconfitta. Io ho cercato di avviare nella prefazione questo discorso nella speranza che esso venisse raccolto.

Era l’immagine di sé a costringere Delfini a scrivere?

In un certo senso sì. La propria letteratura, o meglio la scrittura, era per Delfini il solo interlocutore che lui avesse. La scrittura era il suo prossimo, il suo confidente. Purtroppo, questo prossimo, questo ‘altro’ gli rimandava continuamente l’immagine di sé. È per questo che Delfini sognava di scrivere, e, nello stesso tempo, si stancava di scrivere. Ma è anche per questo che la sua letteratura è straordinaria e purissima. Delfini faceva della letteratura perché voleva comunicare. Ma alla fine, come si vede dai Diari, si ritrovava sempre solo.
 
Nella sua prefazione Garboli conclude scrivendo che Delini era ‘un uomo pieno di gioia’. Ma questi Diari sono tetri e sconsolanti, senza un filo di speranza perché tutte le illusioni che li costellano muoiono col venire alla luce. L’autore non è soltanto solo con se stesso, non è soltanto orfano di qualcuno o di qualcosa, ma è orfano anche del tempo. I giorni si scandiscono monotoni e quando si ricordano sono opachi come il presente. Quale gioia poteva irradiarsi da Delfini? Forse la frase di Garboli è il secondo termine di una contraddizione che denuncia lo spessore di verità del suo ricordo. Delfini non poteva che essere irrimediabilmente triste, così come lo sono i suoi Diari. Ma se la sua disperazione era senza fondo, e il suo dibattimento era senza tregua, come avrebbe fatto a restare vivo? Ci voleva molta gioia.
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