Riga n. 14
Alì Babà
Bruno Falcetto
Alì Babà. Progetto di una rivista 1968-1982
L'indice dei libri, Ottobre 1998

Capitano di rado, e sono preziose, le occasioni di seguire dall'interno il farsi di un'impresa culturale collettiva (rivista o altra iniziativa editoriale), di cogliere dal vivo gli entusiasmi, i mutamenti di rotta, le sovrapposizioni e le discrepanze delle voci. Il quattordicesimo numero di Riga ce ne offre una, presentandoci la storia di un progetto di rivista che ha preso forma fra il 1968 e il 1972 dalle idee di Italo Calvino, Gianni Celati, Carlo Ginzburg, Enzo Melandri e Guido Neri. I nomi dei collaboratori, la sua natura di rivista nascosta mai giunta alla fase operativa, la data di avvio in controtendenza (il '68 apre una fase di crisi, non di dinamismo, della nostra letteratura) rendono particolarmente interessanti i materiali raccolti da Mario Barenghi e Marco Belpoliti. Si tratta di lettere e protocolli interni di discussione, ai quali i curatori hanno affiancato scritti dei vari autori, collegati in vario modo al progetto e al confronto reciproco, e premesso due densi contributi di inquadramento e interpretazione. Sono innanzi tutto Celati e Calvino i protagonisti di queste pagine, con ruoli diversi: Celati ha quello di primo attore, occupa più a lungo la ribalta con la sua inquieta e torrenziale energia propositiva, sempre incline ad aprire nuovi fronti di riflessione piuttosto che a riesaminare il già detto; Calvino sceglie una posizione più defilata, glossa - assentendo, dissentendo, rettificando - le considerazioni dell'amico, ma è anche l'estensore del progetto più articolato e puntuale, indossa i panni insomma dell'osservatore-regista. L'incontro è significativo per entrambi: dirà Calvino nel 1985: «tutto ciò che gli stava a cuore in letteratura, da Lewis Carrol a Samuel Beckett, stava a cuore anche a me», mentre Citati l'anno successivo, in apertura alla riedizione di Finzioni occidentali, ricorderà il ruolo di interlocutore decisivo per lui svolto da Calvino in quei tempi: un interlocutore disponibile e incuriosito, attento, non sempre consensuale.
Al centro del progetto Ali Babà c'è innanzi tutto la necessità di una ridefinizione della letteratura come luogo di significati e di forme che non valgono solo per la letteratura" (Celati, protocollo del dicembre 1968). Al disinteresse manifestato dagli studenti in lotta per il discorso letterario, ai frettolosi appiattimenti su quello politico, si risponde con una battaglia per una letteratura che conti di più, ma senza nessun idoleggiamento della propria specificità. È l'idea di letteratura aperta, onnivora, enciclopedica, pensata come «luogo dei fondamenti mitici dell'operare umano» (Celati), ovvero - nota Barenghi - «quanto di più vicino la cultura italiana (e non solo) abbia prodotto a una concezione modernamente antropologica dell'immaginario letterario». Nella storia di Calvino l'ipotesi Ali Babà è un episodio rilevante di un riorientamento della propria visione del mondo e dell'arte in corso da alcuni anni, e che aveva avuto una prima sanzione significativa sul terreno saggistico nel 1967 in Cibernetica e fantasmi (opportunamente Belpoliti mette in luce come in questa nuova fase gli scrittori italiani contemporanei che contano per Calvino siano Manganelli e, appunto, Celati).Il suo è il percorso di un «ex storicista che ha preso atto della disfatta», ma che non si rassegna a pensare la letteratura come un gioco autoreferenziale e si rivolge all'antropologia perché è su quel piano «che la letteratura non è un universo chiuso» (così a Vito Amoruso nel settembre 1969). E se in Calvino dagli anni sessanta in poi va crescendo l'attenzione per l'autonomia del linguaggio e i suoi meccanismi interni, la ricerca dei luoghi di intersezione fra testo e mondo resterà il filo ostinato attorno al quale egli continuerà a svolgere la propria ricerca e riflessione sulla scrittura.
Ma Ali Babà è un work in progress, progetto non di un singolo periodico, verrebbe da dire, ma di una famiglia di riviste. L'iniziale idea di una rivista enciclopedico-polifonica, di ricerca e di dibattito, cede il passo all'idea della «rivista che sia uno spettacolo» (Celati), una sorta di «Linus dei racconti» (Calvino nell'intervista a Camon), più orientata al colloquio con un pubblico non specialistico; a questa subentra poi l'ipotesi archeologica, l'intenzione di ridare la parola, senza distorsioni, alle voci dimenticate, rimosse, sconfitte dalla Storia. È il tema degli scarti, delle tracce, e si fa allora rilevante il ruolo di Carlo Ginzburg e la lezione di Benjamin, mentre la ricezione precoce e ricca dei lavori di Frye e Bachtin, con l'insegnamento di Lévi-Strauss, sono i punti di riferimento fondamentali nella messa a fuoco di una lettura antropologica dell'universo letterario-culturale. Sono pagine disseminate di prospettive d'indagine e progetti di rubriche suggestivi e intelligenti (su lettura, archetipi, funzioni letterarie, generi del discorso) che lasciano nel lettore il rimpianto di non essere stati sviluppati e fatti interagire in un contesto unitario. Restano a testimoniare di un quadro letterario italiano a cavallo fra anni sessanta e settanta più mosso di quanto siamo abituati a pensare. Uno scritto in forma di lettera di Gianni Celati, datato novembre 1997, chiude il volume e ci aiuta, trent'anni dopo, nel ripensamento.
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