Riga n. 43
Saul Steinberg
Michele Masneri
Milanese spiritoso
«Il Foglio», 09 Novembre 2021

Mentre fuori, a Milano, agiscono le masse scervellate no pass e no vax, bisognerebbe mandare tutti a vedere la gran mostra in Triennale su Saul Steinberg, leggendario illustratore nato nel '14 e morto nel '99, come booster di intelligenza antisovranista. Si capisce subito, vedendo la carriera e la vita di questo artista, nato in Romania, formatosi a Milano, fiorito poi negli Stati Uniti, come già partendo da un genio probabilmente infuso, si prenda il meglio di ogni posto. Non si conoscono abbastanza le qualità romene, però certamente assorbe un certo humor milanese del giro "design", ma che è anche quello degli Jannacci e dei Simonetta, soft spoken e asciutto come una lampada dei fratelli Castiglioni.
Dunque ecco: parte da Bucarest e arriva a Milano, "dove la qualità ebraica della sua razza non era amata come desiderava", come scrive Giorgio Soavi tra i vari saggi del numero di «Riga» monografico appena uscito. Laurea nel '40, appena in tempo per sfuggire alle demenziali leggi razziali, e in mostra (a cura di Francesca Pellicciari, Italo Lupi e Marco Belpoliti) tutte le trascrizioni diplomatiche di voti e diplomi rumeni e italici: a Milano sul certificato di laurea campeggia un "Re Vittorio Emanuele Re d'Italia e d'Albania e Imperatore d'Etiopia", che già fa ridere, ma Primo Levi poi gli manderà la sua, di laurea, sempre col Re-Imperatore, ma con in più il magnifico rettore che si chiama Azzo Azzi, e i due scherzeranno su quello. E su quel "razza ebraica" stampato in "perfetto Bodoni, che lo rende anche più sinistro", scrive Steinberg (ma poi, anni dopo, si divertirà lui a creare falsi diplomi, con tutti i cartigli e i cornicioni e i timbri, per gli amici, per ridere, in generale della vita, di sé, degli umani, delle città).
Nel '42 dopo varie peripezie arriva a Ellis Island e fa il primo di una infinita serie di disegni per il «New Yorker», la produzione che lo renderà celebre. Affascinato e orrificato come Moravia da americani e americane: "Le donne italiane non indossano il corsetto. La presenza di questa armatura fa sì che le donne americane assomiglino a eroici cavalieri medievali". "Gli uomini si mettono in testa una maschera di felicità, un perpetuo rassicurante sorriso che li fa sembrare simpatici amichevoli e in salute e non dobbiamo preoccuparci per loro"; l'idea della maschera lo affascina, se ne fabbricherà una serie (altro "cult" steinberghiano). E, altra autoproduzione, non severa alla Enzo Mari ma ridanciana da commedia all'italiana, di quadri, dei Mondrian e dei Braque, "tutti fatti da me e incorniciati bene. Nessuno dubita e così la casa di campagna è diventata anche per me il gran lusso", scrive a Aldo Buzzi, suo collega al Politecnico e poi sparring partner di scrittura (autobiografia fatta di chiacchiere registrate al mare, e carteggi gran lusso Adelphi).
Nei due volumi editi per l'occasione, tutto un mondo che andrebbe approfondito di un autore abbastanza sconosciuto alle masse italiane (pesano il magnifico anti-specialismo, la poliedricità, come pure in Buzzi; e la vecchia questione che se non ti prendi sul serio tu, non ti ci prenderà nessuno, in Italia. E l'umorismo è sempre visto con enorme sospetto). In «Riga» numero 43 a cura di Marco Belpoliti, Gabriele Gimmelli e Gianluigi Ricuperati, edita da Quodlibet, infinita quantità di saggi amici: Barthes, Buzzi naturalmente, ma anche Bellow, Zavattini, Soavi, e poi Calvino, Soldati, e Adam Gopnik. Nel pregiato librone Steinberg A-Z curato sempre da Belpoliti per Electa invece un dizionario steinberghiano fondamentale.
In America si troverà benissimo, e tenterà di convincere gli amici a seguirlo: Buzzi ma anche Cesare Zavattini, altro compagno di bohème milanese e soprattutto di vignette: durante gli studi a Milano infatti Steinberg collabora con le riviste satiriche, comincia col «Bertoldo» nel '36 portando i suoi disegni, che piacciono al caporedattore Giovannino Guareschi (e a Zavattini e Lattuada, altro architetto mancato). Due anni dopo passa al «Settebello», diretto proprio da Zavattini, e siamo nel pieno di un'onda "meta" che attraversa tutte le arti, architettura design scrittura e pure cinema (solito rapporto coi produttori che si risolve in un nulla di fatto per la cialtroneria e le lungaggini produttive. Amico di Billy Wilder e Ejzenstejn, litiga per una mano che dovrebbe essere la sua, quella disegnante di Gene Kelly in Un americano a Parigi di Vincente Minnelli, fa causa alla Columbia che gli usa i suoi disegni senza permesso, da un suo soggetto nasce Un italiano in America con Alberto Sordi). E un giorno si capirà che forse le meglio intelligenze italiane del Ventesimo secolo non sono passate dal romanzo ma dalle riviste umoristiche, e di lì con mossa del cavallo nel cinema (Flaiano, Zavattini, Maccari, Marchesi ecc.).
Si piazza agli Hamptons, viaggia, e disegna. Tutti gli dicono che è un grande scrittore o artista o architetto mancato pensando di fargli un complimento ma lui: "Io non so scrivere, so parlare sei lingue ma scrivere in nessuna". E poi: "Lo scrivere è un mestiere talmente orribile, talmente difficile"... "C'è nella pittura e nella scultura un compiacimento, un narcisismo, un modo di perdere tempo attraverso un piacere che evita la vera essenza delle cose, l'idea pura; mentre il disegno è la più rigorosa, la meno narcisistica delle espressioni". Meno narcisismo e più divertimento, altro statement molto milanese: e poi sempre l'orgoglioso understatement del disegno: "La mia evoluzione è partita dal basso, dai cartoons", "conservando sempre un po' di questo elemento di mediocrità, di volgarità direi quasi, che non voglio abbandonare ritenendolo una cosa necessaria: come uno che cambiando classe sociale non vuole separarsi dalla moglie e dagli amici dei vecchi tempi".
Dall'America Steinberg ripensa alla sua Italia adottiva: lo stile fascio lombardo che rinomina "Milanese Bauhaus", la sua cameretta in cui si alzava a mezzogiorno sopra il bar del Grillo disegnato da Peressutti e Rogers nella città del design totale, la Galleria. Nessuna nostalgia però in generale. A Zavattini scrive: "Mi stupisco di scriverti al medesimo indirizzo da cinquant'anni, mentre noi abbiamo cambiato decine di case, città, stati". E a tornare non ci pensa proprio, nell'Italia che rivede per la prima volta nel 1944. A Napoli, nel paese disfatto dalla guerra, lui è ormai uno straniero, con la divisa da marine americano, e lì "ora per loro sono un altro credulone, un altro turista da imbrogliare facilmente e che appartiene a una strana classe superiore, il sahab, come in India". Il viaggio è tragico: "va bene venire a vedere i luoghi che hai già visto, ma solo da turista". Non rimpiange per niente "l'atmosfera di piccole miserie e altri trucchi europei che avevo dimenticato negli ultimi tre anni". Alla fine il verdetto è severo: "La vita, da queste parti, è strapiena di delusioni".
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