Francesco Guglieri
L'eredità di Saul Steinberg l'uomo nato per disegnare
Domani, 13 Dicembre 2021
L'eredità di Saul Steinberg l'uomo nato per disegnare
Domani, 13 Dicembre 2021
«Steinberg è nato per disegnare come Fred Astaire è nato per ballare». Questa frase di Aldo Buzzi accoglie il visitatore della grande, bellissima mostra dedicata a Saul Steinberg alla Triennale di Milano (fino al 13 marzo 2022) curata da Marco Belpoliti e Italo Lupi con Francesca Pellicciari.
Una retrospettiva che è uno degli astri, luminoso e imperdibile, di una vera e propria"costellazione Steinberg" che, insieme al catalogo enciclopedico e l'altrettanto ricco numero di Riga (la rivista-libro curata sempre da Belpoliti, qui insieme a Gabriele Gimmelli e Gianluigi Ricuperati, editore Quodlibet), in questi giorni permette all'appassionato italiano di orientarsi come non mai nell'universo del grande artista rumeno-italo-americano.
Nella frase del «grande amico» Buzzi, c'è molto del "mistero Steinberg", almeno per me: la perfetta coincidenza tra talento e opera, quella felicità che trasborda da ogni riga tracciata da Steinberg, da ogni foglietto esposto alla mostra, anche nelle opere più drammatiche, fa sempre pensare che quel tratto non poteva che essere lì, disteso sulla carta proprio in quel modo e non in un altro.
Da qui l'impressione che la sua arte si dia soltanto sotto il segno di una necessità quasi fatale: che Steinberg disegni così è "naturale" come il fatto che gli alberi abbiano le foglie, che l'acqua scorra a valle.
Se da una parte è vero, e l'eccitazione di essere davanti a uno Steinberg viene da qui, dallo spettacolo numinoso del talento assoluto, dall'altra rischia di appiattire e nascondere la complessità di uno dei più importanti e influenti artisti del Novecento.
Davvero preziosa quindi l'operazione di Belpoliti e soci di restituirci uno Steinberg «di fronte e di profilo» (per riprendere un titolo di Belpoliti su Primo Levi). Seguendola sua ispirazione proverò anch'io a raccontare Steinberg attraverso voci, frasi, lemmi, parole-chiave.
Faccia
«A prima vista l'aria è modesta, posata, vagamente pedante, da professore di chimica in un'università americana».
Era fotogenico, Steinberg, penso mentre osservo i ritratti esposti alla Triennale insieme alle sue opere: i fotografi riuscivano a valorizzare quella sua bella faccia curiosa, ironica ma anche impenetrabile come uno di quei tanti totem, tante maschere che disegnerà nel corso della sua carriera.
Faccia comunissima, «da professore di chimica», quasi invisibile (dirà a Sergio Zavoli a proposito della vita in America: «Nessuno qui cerca la solitudine; un uomo solo che bisogno ha di nascondersi, a chi si nasconde?»); ma anche molto plastica e simpatica, velata da improvvise tristezze.
Resto più a lungo davanti a una sua fotografia del 1978: lui maturo, quasi anziano, che tiene in mano sé stesso bambino. È una foto di una malinconia profondissima, di quelle che non arrivano subito ma filtrano nell'osservatore come un incantesimo man mano che si guarda.
Lo sguardo di Steinberg bambino sembra atterrito, come spaventato dal futuro che gli si spalanca d'improvviso davanti. Come se avesse davanti la visione del Novecento che l'aspetta.
Steinberg adulto appare rassegnato, forse triste: padre di sé stesso, come a dire che quella tragedia che chiamiamo Storia — o anche solo Vita — l'attraversiamo da soli.
Maschera
«È una stenografia della faccia. Il risultato, l'identificazione della faccia, il suo totem».
Nato nel 1914 a Râmnicu Sârat («un paese inventato per me»), Saul passa l'infanzia a Bucarest. Dopo un anno a studiare filosofia, nel 1933 si trasferisce a Milano dove si iscrive ad Architettura. Qui incontra Buzzi, amico, editor, confidente di una vita, e l'altro amico di una vita Alberto Lattuada, inizia a pubblicare le prime vignette umoristiche sul Bertoldo di Zavattini, sodale e primo scopritore.
Al Bertoldo collabora anche un giovane Italo Calvino che nel tempo diventerà ammiratore dell'opera di Steinberg. Poi le leggi razziali, sei giorni nelle carceri di San Vittore, il confino nel campo di Tortoreto, in Abruzzo, la partenza per gli Stati Uniti, dove si arruola in Marina e da lì, oltre a disegnare per l'intelligence le illustrazioni di un falso gruppo sovversivo tedesco, invia al New Yorker autentici reportage disegnati dal fronte del Pacifico e poi dall'Europa e dall'Italia.
New Yorker
«Non appartengo propriamente né al mondo dell'arte, né a quello dei comics, e nemmeno a quelle delle riviste, perciò il mondo dell'arte non sa bene dove piazzarmi».
Come scrive Ricuperati nel catalogo, «non si può dire chi sia nato prima, nell'immaginario almeno (nella "cronologia" lo sappiamo benissimo)» se Steinberg o il New Yorker, tanto è stata fitta la collaborazione con la rivista, tanto è stata profonda l'impronta che ha lasciato sul giornale, di fatto definendone molta parte dell'identità, dagli anni Cinquanta fino alla morte nel 1999.
Steinberg è stato uno degli artisti più visti e (forse) meno conosciuti. Difficile non essere anche solo incappati in qualche suo disegno, vignetta, ghirigoro, copertina proveniente dal New Yorker. Steinberg non accetta commissioni da parte del giornale. Lui disegna, poi gli editor passano nel suo studio e prendono i disegni che vogliono: «L'unico criterio è che io li abbia capiti. Ma a volte hanno pubblicato qualche disegno che neanch'io avevo capito».
Per qualche tempo questa intensa attività editoriale costringe la ricezione di Steinberg nel novero degli autori di comics: «Solo perché è pubblicato su una rivista pensano che faccia ridere».
Il fatto è che fu sempre un artista indefinibile, impossibile da inquadrare, ma soprattutto impossibile da museificare. Forse disegnava perché il disegno è un'arte veloce, in cui la matita a volte va più lesta del pensiero, di certo la sua era più veloce di ogni magniloquenza.
Sarà stata la giovinezza passata nell'Italia mussoliniana, ma per lui la pomposità in ogni sua forma era un bersaglio irresistibile.
«Io non mi sono mai preoccupato di un individuo solo, una caratteristica individuale, ma di qualcosa che rappresentasse questo individuo come elemento»: di nuovo le maschere che ci nascondono — e in qualche modo ci preservano — ma che sono anche l'immagine dell'ipocrisia della società contemporanea.
Scrittura
«Sono uno scrittore che non sa scrivere». «Parlo sei lingue e nessuna correttamente. La linea — diciamo la grafologia — è la mia vera lingua».
Ma non è solo per questa lunga fedeltà al New Yorker che Steinberg viene considerato tra i più letterari degli artisti visivi. La penna in prima persona è il titolo di uno dei due saggi che Italo Calvino ha scritto su Steinberg. Non è un caso che allo scrittore di Sanremo interessi l'opera di Steinberg, un artista costantemente in equilibrio tra pensiero-immagine-parola, affascinato dalle figure del labirinto, del ghirigoro, dalle dimensioni molteplici, dall'intreccio di linee che, come i rami attraversati dal Barone rampante, connettono il mondo ma rischiano anche di intrappolare.
«Calvino mette in luce tra i primi — scrive Belpoliti — la natura metalinguistica del disegno dell'artista, che parla quasi sempre di sé stesso, e nel contempo del "sé" che lo disegna. Ê anche una possibilità per l'uomo stesso — il disegnatore disegnato — di essere "padrone di sé", pur non riuscendo a evadere dalla propria condizione di prigioniero». Fino al punto di tenere per mano il sé stesso bambino, come dire possedere la propria storia, il proprio racconto, conchiudersi al punto da vedersi dall'esterno, come fuori dal tempo. Eppure, lo stesso, non fuggire alla malinconia.
È la «sfida del labirinto», come la definiva appunto Calvino: questa consapevolezza di sé, un'vedersi vedersi" la cui lucidità però non porta necessariamente all'emancipazione, è il distillato più puro di ciò che ci ha lasciato il Novecento.
Un'eredità enorme, mi dico uscendo dalla mostra in Triennale, chissà quanto divenuta ormai merce comune, anzi forma della vita di chiunque nel tempo dei social e del nostro costante autoracconto; oppure è un'eredità completamente dimenticata dal momento che questo autoracconto è totalmente acefalo, inconsapevole, incatenante?
Non lo so. Quello che so è che, per parafrasare Borges quando in una poesia scriveva di essere contento che sulla Terra ci fosse stato Stevenson, io sono contento che sulla Terra ci sia stato Saul Steinberg.
Una retrospettiva che è uno degli astri, luminoso e imperdibile, di una vera e propria"costellazione Steinberg" che, insieme al catalogo enciclopedico e l'altrettanto ricco numero di Riga (la rivista-libro curata sempre da Belpoliti, qui insieme a Gabriele Gimmelli e Gianluigi Ricuperati, editore Quodlibet), in questi giorni permette all'appassionato italiano di orientarsi come non mai nell'universo del grande artista rumeno-italo-americano.
Nella frase del «grande amico» Buzzi, c'è molto del "mistero Steinberg", almeno per me: la perfetta coincidenza tra talento e opera, quella felicità che trasborda da ogni riga tracciata da Steinberg, da ogni foglietto esposto alla mostra, anche nelle opere più drammatiche, fa sempre pensare che quel tratto non poteva che essere lì, disteso sulla carta proprio in quel modo e non in un altro.
Da qui l'impressione che la sua arte si dia soltanto sotto il segno di una necessità quasi fatale: che Steinberg disegni così è "naturale" come il fatto che gli alberi abbiano le foglie, che l'acqua scorra a valle.
Se da una parte è vero, e l'eccitazione di essere davanti a uno Steinberg viene da qui, dallo spettacolo numinoso del talento assoluto, dall'altra rischia di appiattire e nascondere la complessità di uno dei più importanti e influenti artisti del Novecento.
Davvero preziosa quindi l'operazione di Belpoliti e soci di restituirci uno Steinberg «di fronte e di profilo» (per riprendere un titolo di Belpoliti su Primo Levi). Seguendola sua ispirazione proverò anch'io a raccontare Steinberg attraverso voci, frasi, lemmi, parole-chiave.
Faccia
«A prima vista l'aria è modesta, posata, vagamente pedante, da professore di chimica in un'università americana».
Era fotogenico, Steinberg, penso mentre osservo i ritratti esposti alla Triennale insieme alle sue opere: i fotografi riuscivano a valorizzare quella sua bella faccia curiosa, ironica ma anche impenetrabile come uno di quei tanti totem, tante maschere che disegnerà nel corso della sua carriera.
Faccia comunissima, «da professore di chimica», quasi invisibile (dirà a Sergio Zavoli a proposito della vita in America: «Nessuno qui cerca la solitudine; un uomo solo che bisogno ha di nascondersi, a chi si nasconde?»); ma anche molto plastica e simpatica, velata da improvvise tristezze.
Resto più a lungo davanti a una sua fotografia del 1978: lui maturo, quasi anziano, che tiene in mano sé stesso bambino. È una foto di una malinconia profondissima, di quelle che non arrivano subito ma filtrano nell'osservatore come un incantesimo man mano che si guarda.
Lo sguardo di Steinberg bambino sembra atterrito, come spaventato dal futuro che gli si spalanca d'improvviso davanti. Come se avesse davanti la visione del Novecento che l'aspetta.
Steinberg adulto appare rassegnato, forse triste: padre di sé stesso, come a dire che quella tragedia che chiamiamo Storia — o anche solo Vita — l'attraversiamo da soli.
Maschera
«È una stenografia della faccia. Il risultato, l'identificazione della faccia, il suo totem».
Nato nel 1914 a Râmnicu Sârat («un paese inventato per me»), Saul passa l'infanzia a Bucarest. Dopo un anno a studiare filosofia, nel 1933 si trasferisce a Milano dove si iscrive ad Architettura. Qui incontra Buzzi, amico, editor, confidente di una vita, e l'altro amico di una vita Alberto Lattuada, inizia a pubblicare le prime vignette umoristiche sul Bertoldo di Zavattini, sodale e primo scopritore.
Al Bertoldo collabora anche un giovane Italo Calvino che nel tempo diventerà ammiratore dell'opera di Steinberg. Poi le leggi razziali, sei giorni nelle carceri di San Vittore, il confino nel campo di Tortoreto, in Abruzzo, la partenza per gli Stati Uniti, dove si arruola in Marina e da lì, oltre a disegnare per l'intelligence le illustrazioni di un falso gruppo sovversivo tedesco, invia al New Yorker autentici reportage disegnati dal fronte del Pacifico e poi dall'Europa e dall'Italia.
New Yorker
«Non appartengo propriamente né al mondo dell'arte, né a quello dei comics, e nemmeno a quelle delle riviste, perciò il mondo dell'arte non sa bene dove piazzarmi».
Come scrive Ricuperati nel catalogo, «non si può dire chi sia nato prima, nell'immaginario almeno (nella "cronologia" lo sappiamo benissimo)» se Steinberg o il New Yorker, tanto è stata fitta la collaborazione con la rivista, tanto è stata profonda l'impronta che ha lasciato sul giornale, di fatto definendone molta parte dell'identità, dagli anni Cinquanta fino alla morte nel 1999.
Steinberg è stato uno degli artisti più visti e (forse) meno conosciuti. Difficile non essere anche solo incappati in qualche suo disegno, vignetta, ghirigoro, copertina proveniente dal New Yorker. Steinberg non accetta commissioni da parte del giornale. Lui disegna, poi gli editor passano nel suo studio e prendono i disegni che vogliono: «L'unico criterio è che io li abbia capiti. Ma a volte hanno pubblicato qualche disegno che neanch'io avevo capito».
Per qualche tempo questa intensa attività editoriale costringe la ricezione di Steinberg nel novero degli autori di comics: «Solo perché è pubblicato su una rivista pensano che faccia ridere».
Il fatto è che fu sempre un artista indefinibile, impossibile da inquadrare, ma soprattutto impossibile da museificare. Forse disegnava perché il disegno è un'arte veloce, in cui la matita a volte va più lesta del pensiero, di certo la sua era più veloce di ogni magniloquenza.
Sarà stata la giovinezza passata nell'Italia mussoliniana, ma per lui la pomposità in ogni sua forma era un bersaglio irresistibile.
«Io non mi sono mai preoccupato di un individuo solo, una caratteristica individuale, ma di qualcosa che rappresentasse questo individuo come elemento»: di nuovo le maschere che ci nascondono — e in qualche modo ci preservano — ma che sono anche l'immagine dell'ipocrisia della società contemporanea.
Scrittura
«Sono uno scrittore che non sa scrivere». «Parlo sei lingue e nessuna correttamente. La linea — diciamo la grafologia — è la mia vera lingua».
Ma non è solo per questa lunga fedeltà al New Yorker che Steinberg viene considerato tra i più letterari degli artisti visivi. La penna in prima persona è il titolo di uno dei due saggi che Italo Calvino ha scritto su Steinberg. Non è un caso che allo scrittore di Sanremo interessi l'opera di Steinberg, un artista costantemente in equilibrio tra pensiero-immagine-parola, affascinato dalle figure del labirinto, del ghirigoro, dalle dimensioni molteplici, dall'intreccio di linee che, come i rami attraversati dal Barone rampante, connettono il mondo ma rischiano anche di intrappolare.
«Calvino mette in luce tra i primi — scrive Belpoliti — la natura metalinguistica del disegno dell'artista, che parla quasi sempre di sé stesso, e nel contempo del "sé" che lo disegna. Ê anche una possibilità per l'uomo stesso — il disegnatore disegnato — di essere "padrone di sé", pur non riuscendo a evadere dalla propria condizione di prigioniero». Fino al punto di tenere per mano il sé stesso bambino, come dire possedere la propria storia, il proprio racconto, conchiudersi al punto da vedersi dall'esterno, come fuori dal tempo. Eppure, lo stesso, non fuggire alla malinconia.
È la «sfida del labirinto», come la definiva appunto Calvino: questa consapevolezza di sé, un'vedersi vedersi" la cui lucidità però non porta necessariamente all'emancipazione, è il distillato più puro di ciò che ci ha lasciato il Novecento.
Un'eredità enorme, mi dico uscendo dalla mostra in Triennale, chissà quanto divenuta ormai merce comune, anzi forma della vita di chiunque nel tempo dei social e del nostro costante autoracconto; oppure è un'eredità completamente dimenticata dal momento che questo autoracconto è totalmente acefalo, inconsapevole, incatenante?
Non lo so. Quello che so è che, per parafrasare Borges quando in una poesia scriveva di essere contento che sulla Terra ci fosse stato Stevenson, io sono contento che sulla Terra ci sia stato Saul Steinberg.